di Luciana Cusimano
Da sempre curiosa e attenta, fin da piccola (ma, onestamente, non ho ancora smesso), sono solita soffermarmi sulle parole, le frasi e i racconti che avverto attorno a me, interrogandomi sul loro recondito senso e cercando di visualizzarne plasticamente i contenuti.
Sotto questo punto di vista, il dialetto ha esercitato su di me un particolare fascino.
Voglio continuare ad appartenere orgogliosamente alla schiera di quanti rivendicano l’importanza del dialetto ai fini di una padronanza piena delle proprie radici.
Conoscere e sapere parlare il dialetto denota elasticità mentale e apertura verso mille orizzonti sempre nuovi e, forse, non c’era nemmeno bisogno che un’apposita ricerca scientifica validasse l’intuizione per cui affiancare alla lingua madre la pratica del dialetto equivale a vero e proprio esercizio di bilinguismo e stimola proficuamente determinate aree cerebrali.
Il dialetto va (ri)scoperto, insegnato, parlato, conosciuto a fondo e tramandato, come tutto ciò che serve a conservare la Memoria; un valore, oggi, troppo spesso, sottovalutato e sacrificato sull’altare della velocità incalzante dei ritmi del progresso e della rapida obsolescenza.
Va rivolto un appello alle nuove generazioni che, più di ogni altra, sono abituate ad assimilare con facilità i nuovi linguaggi. Se si è particolarmente sensibili e recettivi verso tutti i nuovi codici espressivi che ci provengono dal web e dal virtuale, perché non esserlo rispetto a ciò che ci proviene “dall’ interno”?
Come si potrebbe rinunciare alla polisemia e alle contaminazioni che trasuda il nostro siciliano, così arricchito da tutte le sue varianti e inflessioni che mutano man mano che si attraversa l’isola? Vocali aperte e toni piani che si trascinano lentamente e quasi svogliatamente nelle aree di mare, per trasformarsi in prevalenti allitterazioni e concitazione ritmica man mano che si risale verso i borghi di montagna. Come se al variare delle temperature variasse la propensione a indugiare sui vari fonemi.
E poi, ci sono quelle espressioni intraducibili letteralmente, ma così pregne di significati, che squarciano il sipario di preconcette convinzioni, lasciando spazio alla riflessione e allo stupore. E se, in realtà, fin dalle origini, si fosse voluto dire o lasciare intendere più del previsto? E se, a volte, parlare vuol dire provare a profetizzare e vederci lungo, anticipando i tempi attraverso l’espressività?
Un’espressione tipicamente siciliana, su tutte, calza a pennello rispetto ai precedenti interrogativi, secondo me.
“Tizia avi accattari/accattavi un picciriddu”.
Lapidaria nel suo contenuto – frammisto di gossip di quartiere che circola di bocca in bocca, si veicola da balcone a balcone, annuncio felice, comunicazione di servizio, prevedibile esito di sintonia di coppia – ha sempre solleticato il mio interesse.
Mi sono sempre chiesta perché l’evento nascita fosse associato a un verbo, “accattari” (= comprare) , così denso di riferimenti alla più cruda materialità. “Comprare” dove, come e, soprattutto, perché?
Col tempo, mi sono data una spiegazione che non ha velleità di rigore linguistico o filologico.
E se gli antichi – di cui era nota e consolidata la pietas, l’esser timorati e l’incarnato senso del pudore – avessero usato questa metafora, per così dire commerciale e mercantile, per sottintendere come una donna che genera una nuova vita, “acquista” il suo pieno senso diventando madre?
E se l’atto della riproduzione fosse da intendere come un valore “aggiunto”, non solo per la donna ma anche per la famiglia di origine che così “cresce” e per tutta la comunità di appartenenza che, di conseguenza, “acquista” un nuovo membro?
Non so se, filologicamente, le mie fantasiose elaborazioni mentali ci abbiano preso o meno. Ma di una cosa sono assolutamente certa: i nostri avi, quando usavano questa timida circonlocuzione, quando hanno inventato questo pudico modo di dire, per occultare ogni riferimento, anche solo velato, alle prodromiche fasi dell’accoppiamento (“Gesù, Giuseppe e Maria!!!” e che sarà stato mai!), non potevano mai immaginare (o almeno credo) che un giorno la realtà avrebbe superato ogni ordinaria logica e più fervida immaginazione.
Sì, perché, oggi, il seme si può comprare nelle apposite “banche”, gli ovuli si vendono e l’utero si affitta. E che non mi si venga dire che chi mette a disposizione o cede parti di sé lo fa con spirito di solidarietà e liberalità perché, di fatto, denaro riceve.
Mi consola, solo in parte, che tutto ciò in Italia è considerato un fatto aberrante e illegale, come tale vietato e perseguito.
Monetizziamo e parcellizziamo tutto: vita, lavoro, tempo, persone. Attribuiamo un numero, una percentuale, un valore a ogni cosa. E va già benissimo (cioè malissimo) così!