Catania ricorda il decennale della scomparsa dell’artista Paolo Montalbano

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Nei locali della sede della Fondazione Marco Montalbano a Viagrande, voluta dall’artista Paolo in ricordo del figlio, giovane fumettista scomparso tragicamente in un incidente stradale nell’agosto 1985, nei giorni scorsi è stata ricordata la figura proprio di Paolo, scomparso invece ormai dieci anni fa. Di seguito uno scritto che traccia la figura dell’artista e poeta.

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Paolo Montalbano nasce a Tripoli di Libia, città di geometrie classiche e islamiche, di bianchi assoluti dove la polvere e il vento attraversano i vicoli ombrosi della Medina e l’Arco di Marco Aurelio e dove il respiro del deserto è palpabile.

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Nei suoi appunti ricorda la precoce attività artistica in Libia: «Ho operato nel campo delle arti dall’età di quindici anni avendo frequentato la scuola d’arte orafa Benvenuto Cellini di Tripoli»; ha poi continuato gli studi presso la Scuola d’Arte di Catania dopo l’arrivo in Italia.

La Libia sarà decisiva come flusso della memoria dove una pittura prima astratta e poi iconica lo riporterà alle immagini della sua infanzia nordafricana e ai deserti delle sue terre native.

Sbalzare la luce

Esordisce giovanissimo a Catania nei primissimi anni Sessanta con la realizzazione di opere in rame sbalzato dove sono evidenti le suggestioni informali e dell’Espressionismo Astratto americano, e con opere su carta dove il segno pittorico si declina attraverso una rivisitazione del dripping di Pollock. Scrive Librando nel 1965: «gli sbalzi di Paolo Montalbano, mai semplicemente decorativi, per buona parte sono un punto di arrivo, una tecnica che si direbbe congeniale alla sua sensibilità».

Le opere sono inizialmente bidimensionali e vengono notate positivamente dall’ambiente artistico catanese, per poi aprirsi allo spazio tridimensionale dove come scrive Enrico Failla nel 1967 «Montalbano riesce a scolpire il vuoto, rubandolo all’assolutezza dell’infinito e imprigionandolo in una commovente ed essenziale plasticità».

I piani bidimensionali si elevano in strutture di materia corrosa, perforata, il metallo ribolle e si fanno strada i ricordi dei metalli dei Tuareg lavorati con motivi astratti e decorativi.

Il rilievo si impone al centro di questa fase di ricerca di Montalbano che al principio degli anni settanta approda a una nuova dimensione di rigore compositivo.

Scritture lunari

La mostra a Catania del 1971 presenta una svolta importante nell’opera di Montalbano, un passaggio a una nuova visione geometrica in cui si palesano le nuove forme che culmineranno nella mostra romana al Centro Skema del 1979, in cui elabora il processo di quelle che saranno le sue “Scultografie”.

In questi anni si trasferisce a Roma e diventa parte integrante del contesto capitolino. Già nel 1973 le superfici delle opere dell’artista si concentrano in una visione rigorosa e quasi minimale, declinandosi attraverso lastre lisce di alluminio come scritture argentee, forme germinali, in evocazioni di semi e di fioriture.

Il testo pubblicato nella cartolina d’invito alla mostra del 1979 chiarisce i termini poetici di queste opere: «Durante l’ultimo viaggio nel Sahara… fui colpito dalla musicalità dei segni sulla sabbia: ogni segno era organizzato perfettamente e si armonizzava col tutto. La natura mi stimolava alla ricerca del simbolo; intervenire su materiali dati dalla macchina con segni appena palpabili creando un nuovo modo di scrivere lo SPAZIO».

L’elemento tecnologico viene riletto attraverso la visione lirica di una natura primordiale. Montalbano dialoga qui con l’Optical Art e con l’Arte Cinetica in bilico tra una dimensione futuribile e la presenza di ideogrammi arcaici e segni cuneiformi, alfabeti perduti di civiltà sconosciute.

La Materia dipinta del Libro

I primissimi anni Ottanta vedono Montalbano trasferire le sue ricerche metalliche nel campo della carta e di libri visti come opere uniche destinate ad un rapporto diretto e tattile tra le pagine composte come quadri, le mani dell’artista e quelle del lettore-spettatore.

Il libro d’artista, formato da pezzi unici poi assemblati in un libro e spesso insieme ad elementi di scrittura poetica, rappresenta uno spazio di transizione per l’artista dove il disegno, il colore e il rilievo si uniscono in una visione concettuale di superamento della componente industriale della stampa.

Non a caso Achille Bonito Oliva recensendo la mostra del 1979 su Il Corriere della Sera ha messo in evidenza la manualità di Montalbano vista come il supporto di ogni fare nell’arte direzionata verso l’espressione del manufatto artistico. Paolo Montalbano presenta opere che hanno la qualità dell’elaborazione e quella dell’autonomia linguistica. Come dice Luciano Marziano, nella presentazione, il risultato tende a restituire la forma come evento ritmico-spazale e come concretizzazione della luce. Proprio Marziano nel 1973 aveva scritto: «L’artista trova nel metallo e nella calcografia a secco i tramiti di una immediatezza linguistica che gli consentono di … recuperare e reinventare procedimenti come quello manuale.

Come scrive Enrico Crispolti «il libro a mano è una rivalsa della manualità sulla meccanicità della stampa (…) della matericità del libro sullo stereotipo dell’oggettualità del prodotto industriale. In questo senso va anche ricordato quello che ha scritto Filiberto Menna sulle impressioni di letture sui libri fatti a mano: segni, tracce, un cono che unisce cielo e terra, vulcano che vomita, messaggio per il cielo. Montalbano si avvia a recuperare un nuovo rapporto con la natura e con i colori della Sicilia e del suo Mediterraneo e come ha scritto Marcello Venturoli nel 1986: «questo secondo momento, dopo il rifiuto concettuale è ricco di raffinate e poetiche immagini sul tema dell’isola intesa naturalmente non come folklore e neppure come terra del Sud, ma come massima apertura sull’esistente».

Dopo l’argento delle Scultografie e i bianchi dei Libri, il colore di Montalbano esplode in una pioggia di frammenti, in una grande tessitura cromatica in cui sono i colori della Sicilia a rivelarsi in una esplosione di felicità.

Al centro di questo periodo si innesta la tragica perdita del figlio Marco nel 1985 a cui però Paolo Montalbano reagisce coraggiosamente creando una Fondazione dedicata allo stesso Marco e in particolare alla sua passione per il fumetto.

Tornando alla pittura, nei quadri di questa fase, come ha scritto Jacopo Benci «dominano verdi, turchesi, blu animati da squarci di rosa, rossi, viola. Sovente al colore a olio si mescolano inserti collagistici e materici che mostrano una tensione verso la scultura dipinta. L’approccio è dinamico, drammatico come gli stessi titoli indicano, il peso del contenuto è sublimato in una pittura-pittura in cui la fisicità si accompagna ad un’intensa pensosità.

In questo periodo la pittura si dirige verso una dimensione politica e civile e riprende la sua attenzione per la causa palestinese a cui il pittore dedica mostre e progetti condivisi con altri artisti.

La pittura per la Pace

Nella mostra romana alla Galleria Monogramma del 2002 Montalbano sembra avere fuso le diverse esperienze della sua opera, collegandole ad immagini dell’infanzia in Africa che si mescolano in una pittura dalla stesura densa e meditata che si fa esistenza concreta. Montalbano realizza una sintesi delle sue fasi di artista, a partire dalle sue esperienze di avanguardia di brani iconici, agli arabeschi decorativi (di matrice araba), all’accumulo di pigmenti dove la memoria si trasforma in coscienza civile e in grido di denuncia.

L’utilizzo del cromatismo acceso, di toni caldi, di terre accecate da un sole implacabile, accentuano il sentimento di dolore, di impotenza e di accorata protesta di questi dipinti.

Così le deformazioni, le sbavature, le raschiature, le sovrapposizioni di grumi pittorici esprimono l’inquietudine e le accuse, la rivolta dell’artista di fronte ad eventi tragici destinati ad avere solo sconfitti.

In una seconda mostra romana, nella galleria TraleVolte si spinge verso una nuova personale figurazione che si addolcisce in un sentimento di lirica sacralità.

L’artista ritorna ai paesaggi della terra dei Padri, terre arcaiche dove Abramo udiva i richiami del Signore, e Giacobbe dopo una lunga lotta riusciva quasi a trovarsi faccia a faccia con Dio. Queste terre rocciose e aride diventano spazi silenziosi e misteriosi, attraversati da cammelli enigmatici e solenni, le palme diventano frammenti di racconti di ere lontane, le colline del deserto si riempiono della luce di una luna che sembra unire l’umano e l’ultraterreno, e le rocce violette sembrano riecheggiare la Scala sognata da Giacobbe: un annuncio di concordia tra il Superiore e l’inferiore tra il terreno e il divino.

In questo modo Paolo Montalbano conclude il suo percorso in un viaggio attraverso la materia e la luce, seguendo le rotte sul suo deserto, le tracce astratte lasciate sulla sabbia, i colori che riemergono dalle oasi dopo il silenzio delle dune, fino alle memorie dell’infanzia, un racconto per immagini nella (perenne) tensione di un pittore capace di donare rigore etico, forza costruttiva, qualità lirica e valore civile alla sua opera dipanata in quasi cinquant’anni di assidua e costante ricerca.

(Lorenzo Canova 2018, Paolo Montalbano Opere 1960-2009)

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