di Luigi Asero
Orazio Pino, 70 anni, originario di Misterbianco ma da anni residente a Chiavari in Liguria è stato assassinato nella serata di martedì 23 aprile con un colpo di pistola sparato alla nuca da breve distanza, non più di 5 o 6 metri. Stava per salire a bordo della sua auto, rinvenuta ancora chiusa, all’interno del silos multipiano di piazza Dante. Escluso si dal primo istante il movente di una rapina, sebbene svolgesse adesso l’attività di orefice, visto che con lui c’era il marsupio con all’interno denaro in contanti. La Squadra Mobile di Genova indaga sull’omicidio e scava nel passato della vittima, oltre a visionare i filmati di tutte le telecamere di sorveglianza pubbliche e private della zona. I pochi possibili testimoni sentiti non sarebbero stati in grado di fornire elementi utili alle indagini, si spera quindi di acquisire informazioni utili proprio dai filmati anche dello stesso parcheggio.
Perché quello di Orazio Pino non è un “qualsiasi delitto” (orrenda espressione) lo si intuisce scoprendo che l’uomo, prima residente nel catanese, era un pentito di mafia che aveva collaborato con i magistrati dopo essere stato un uomo della cosca di Benedetto Santapaola, storico boss di Catania. Il suo ruolo in Cosa Nostra catanese non era certo marginale, infatti aveva ricoperto il ruolo di capo della “squadra” di Misterbianco del clan Santapaola in contrapposizione alla cosca facente capo al boss misterbianchese Mario Nicotra, poi ucciso nel 1989.
Orazio Pino aveva scelto nel 2009 di uscire dal programma di protezione e poche settimane fa aveva chiuso definitivamente i conti con la Giustizia. Non, forse, con il o “i” clan.
Tra gli anni ’80 e ’90 era stato un killer vicino ai santapaoliani del “Malpassotu” (Pippo Pulvirenti), lui stesso nelle sue dichiarazioni si prese la responsabilità di parecchi omicidi di mafia, ponendosi come uomo di spicco di quella decennale faida che portò alla morte di circa 1.500 persone in un decennio. Di parecchi omicidi, decine sembrerebbe imputabili direttamente alla sua figura, è stato anche mandante.
Uscito dal programma di protezione nel 2009, aveva cercato di rifarsi una vita in Liguria, tramite l’apertura di alcune gioiellerie aperte grazie a una sorta di “liquidazione” economica dallo Stato in cambio della sua fuoriuscita dal sistema di protezione appunto e grazie a questo denaro gestiva in Liguria una gioielleria con diversi punti vendita in società con i familiari più stretti: la moglie e le due figlie. Eppure proprio secondo la prefettura di Genova che emise nel 2016 apposita interdittiva antimafia per la sua presenza nella società “permane il pericolo di tentativi di infiltrazioni mafiose nella società proprio in ragione della sua presenza”. Si dimise dalla società ma il Tar confermò la validità dell’interdittiva stessa.
Negli ambienti criminali catanesi si vociferò inoltre che fu proprio lui a convincere lo stesso Giuseppe Pulvirenti (u Malpassotu) a passare dall’altro lato della barricata diventando egli stesso collaboratore di giustizia e scompaginando completamente le fila dell’allora potente e sanguinario clan.
Certamente è presto per ipotizzare conclusioni, l’omicidio potrebbe esser scaturito da ragioni nuove tutte da scoprire. Di certo c’è che Cosa Nostra non dimentica. Ce lo ricordò Giovanni Falcone affermando, anche in “Cose di Cosa Nostra” che un conto con l’organizzazione mafiosa si chiude soltanto con la morte.