Un lungo viaggio tra le “pieghe” di una vita spesa per il giornalismo nel racconto di una Palermo tra omicidi mafiosi e “primavere” di rinascita
di Anna Studiale
Guido Valdini, grande figura di giornalista, critico teatrale ed intellettuale ricco di garbo, oggi è una voce autorevole de “La Repubblica” ma nel suo passato il suo nome e la sua professionalità sono state intimamente legate a “L’Ora”, un giornale che dal 1900 – anno di nascita e su iniziativa della famiglia Florio – fino all’otto maggio del 1992 è stata la voce di Palermo e dell’Italia intera; una testata che ha attraversato tutto il Novecento registrando le sue trasformazioni storiche e sociali e la cui storia ha intensi legami con il Partito Comunista Italiano che negli anni Cinquanta ne acquisì la sua proprietà. Lo abbiamo incontrato per una lunga chiacchierata nel corso della quale Valdini ci ha donato un viaggio speciale nei suoi ricordi traghettandoci nella narrazione di una vita vissuta tra la passione per la nobile arte del teatro fino al suo ingresso nella redazione del prestigioso quotidiano in un crescendo di esperienze umane e professionali. La sua è una testimonianza di un giornalismo che oggi non esiste più, così come non esiste più la Palermo del teatro fatto e vissuto nelle cantine, delle proteste politiche, della voglia di sperimentazione e nella conquista di una libertà di azione sociale; di una Palermo macchiata dal sangue delle guerre di mafia, dei delitti eccellenti, dei magistrati, politici, sindacalisti uccisi perché troppo scomodi.
Abbiamo scelto, pertanto, di riportare con una certa fedeltà le sue parole interrotte da poche domande che hanno come tracciato la strada al suo racconto.
Quali sono stati i suoi esordi?
«Recitavo in un gruppo e facemmo per la prima volta a Palermo un Samuel Beckett minimo, non quello di “Aspettando Godot”, o di “Finale di partita” ma il Beckett dei radiodrammi ed anche altri autori che in quei tempi erano molto in voga per via delle nuove forme di espressività che avevano sperimentato. Si trattava di autori di battaglia, anticonformisti. Frequentando il teatro, inoltre, avevo avuto anche modo di frequentare intellettuali di quel tempo sicché m’imbattei in un gruppo allora attivo a Palermo tra i quali figurava Michele Perriera, critico teatrale del giornale “L’Ora”. Un giorno, incontrandolo casualmente da Flaccovio, mi propose di sostituirlo come critico teatrale nel giornale. Prima avevo avuto solo poche esperienze con la cronaca sportiva e questa sua proposta mi spiazzò. Era il 1973/74, avevo poco più di 20 anni e fu così che cominciai a cimentarmi in quest’avventura».
Di cosa si iniziò ad occupare per “L’Ora”?
«I primi tempi facevo recensioni di spettacoli minori ma, progressivamente, cominciai ad incontrare autori di primo piano del teatro siciliano tra i quali anche Franco Scaldati, anch’egli proveniva dalle cantine, col suo linguaggio poetico siciliano assolutamente inventato ed io fui tra i primi a scrivere con entusiasmo del suo “Il pozzo dei pazzi”, testo che oggi viene studiato anche nelle università. Era un momento molto fecondo per il teatro a Palermo ed ebbi modo di registrarlo, con la fortuna di trovarmi nel posto giusto al momento giusto; nel frattempo ho smesso di fare teatro attivo e iniziai dedicarmi al giornale. “L’Ora” in quegli anni era un quotidiano del pomeriggio, usciva verso le 14 ed i tempi giornalistici erano infernali. Per rispettare i tempi della cronaca era necessario scrivere la notte: dopo lo spettacolo io mi recavo in redazione, il portiere mi apriva ed io lasciavo il pezzo. Frequentando la redazione mi cominciai ad appassionare di giornalismo, in cui il lavoro sul campo è la base, benché la pratica e la conoscenza sono indispensabili. In quegli anni, entrare nella redazione di un giornale era molto difficile e bisognava fare una lunga e gravosa gavetta».
Qual era la realtà de “L’Ora” in quegli anni in cui lei iniziò la sua collaborazione?
«Fino a quando vi entrai io, nella metà degli anni Settanta, era un piccolo giornale che, grazie alla direzione di un giornalista straordinario come Vittorio Misticò, era diventato famoso in tutta l’Italia seppur con esigue risorse. Era un quotidiano anche bandiera di un partito, bandiera dell’antimafia, e, non a caso, era stato il primo giornale a parlare di mafia ancora quando i magistrati dicevano che non esistesse. Molto importanti erano la passione, l’intelligenza e la fantasia dei suoi giornalisti, guidati da un grande direttore qual era per l’appunto Misticò, uomo calabrese trapiantato a Palermo che lo guidò dalla metà degli anni Cinquanta fino alla metà degli anni Settanta. Quando entrai io, il Partito Comunista aveva intenzione di mollare e si formò una cooperativa di giornalisti. Io decisi di affrontare questa condizione difficile e ne feci parte. All’inizio, in un giornale come “L’Ora” bisognava saper fare di tutto tout court, e fu così che cominciai a scrivere a tuttotondo, frequentando quella che è la “cucina” di un giornale; non c’erano i grafici e ci occupavamo anche dell’impaginazione».
Lei ha vissuto durante gli anni in cui scoppiò a Palermo la guerra di mafia tra i diversi clan che si contendevano il controllo della città e di tutto il territorio circostante; erano anni in cui i fotografi del suo giornale erano sempre tra i primi ad arrivare per immortalare in pochi scatti i tanti omicidi che si succedevano nella Palermo di quegli anni “bui”, paginoni in cui l’eloquenza di una foto era il corpus della notizia. Lei come ha vissuto questo periodo all’interno della redazione?
« “L’Ora” fu per primo oggetto di un attentato: erano gli anni Sessanta e Cosa nostra, per via delle sue inchieste, fece esplodere la tipografia con un ordigno. Cosimo Cristina, giornalista e corrispondente da Termini Imerese fu un omicidio di mafia, spinto sotto un treno; un fatto di sangue sdoganato come suicidio, così come furono assassinati per ragioni identiche Mauro De Mauro e Giovanni Spampinato. Eravamo sintonizzati con la radio della Polizia come del resto altri giornali che però, a differenza nostra, avevano una linea governativa “grigia” che non gli permetteva di sbilanciarsi mentre noi eravamo più liberi di esprimerci e molto meno “ingessati”. In questo un ruolo importante era affidato ai fotografi, per i quali “L’Ora” ha una tradizione di nomi eccellenti tra i quali Letizia Battaglia».
Che ricordi conserva di quel periodo?
“Si viveva sul momento, sull’istante che brucia. Certo, c’era la consapevolezza di vivere in un momento particolarmente grave, anche se devo dire che Palermo, in fondo, non era una città meno sicura di adesso.
C’erano pochissimi locali, pizzerie quasi niente, diversi cinema ma ricordo che la sera le ragazze uscivano da sole. Non c’era la percezione del pericolo perché la mafia non colpiva alla cieca, né i ceti borghesi, ma si colpivano soprattutto tra loro e talvolta, di striscio, i politici, i sindacalisti, i giornalisti se davano fastidio. Per il resto Palermo era una città tranquilla perché si diceva: “Sono fatti loro, si ammazzano tra di loro”, il che era vero. Certo, l’atmosfera che si respirava era particolarmente imbarazzante, gli omicidi si susseguivano un giorno dopo l’altro, erano i tempi in cui i corleonesi guerreggiavano per espugnare la Cupola e prenderne il potere».
E la politica in quegli anni cosa faceva per Palermo?
«La politica era in mano ai vecchi notabili democristiani e fu soltanto nella seconda metà degli anni Ottanta con la “primavera” di Palermo che prese voce un giovanissimo Orlando che seppe sviluppare un laboratorio da cui venne alla luce, poi, il Pentapartito. Da lì si diede una prima scossa al Palazzo delle Aquile, e si cominciò a parlare di risanamento del centro storico».
Ma ad un certo punto cambiarono gli assetti all’interno del giornale, ci racconta cosa successe?
«Sì! Arrivò ad un punto nodale quando il Partito Comunista, che aveva sempre mantenuto la proprietà del giornale, creò una nuova casa editrice ed arrivarono più finanziamenti assieme ad un po’ di tecnologia, oltreché nuovi amministratori; ma scattò anche un problema di gestione politica: era il momento di Achille Occhetto che all’interno del partito aveva scavalcato l’ala più dura creando un’apertura maggiore nella formazione dei governi con gli accordi con i socialisti ed anche con i democristiani. Tutto ciò ha fatto sì che il vecchio gruppo dirigente de “L’Ora” pensò di dare spazio ai giovani con ricambi generazionali che diedero nuova linfa al giornale, mentre, alla sua direzione, fu nominato Tito Cortese, giornalista veneziano, cronista molto famoso all’epoca, giornalista RAI, corrispondente da diverse parti d’Europa tra le quali Parigi e Londra. Era un grande esperto di politica estera, sicché avemmo una forte e reciproca intesa, ma solo fino alla mia nomina a capo redattore. Successivamente, il feeling tra Cortese e la Sicilia si interruppe così come i finanziamenti di cui il giornale usufruiva; diminuì il numero dei lettori ed il Partito Comunista prese in mano la situazione, fin quando si arrivò all’otto maggio del 1992, subito dopo l’assassinio di Salvo Lima, l’ultimo giorno in cui il giornale uscì con la sua ultima copia. Gli ultimi tempi per me furono molto travolgenti all’interno del giornale, rappresentava tutta la mia vita, ero sempre in redazione fino a notte inoltrata».
Oggi lei scrive per giornali molto importanti ed occupa un settore prestigioso quale quello della critica. Quanto è cambiato il giornalismo di oggi rispetto al passato e cosa rappresenta per lei oggi la critica?
«Il giornalismo di oggi ha perduto in passione, in dedizione al lavoro di un tempo, in vitalità, in freschezza; tutto è molto indifferente perché ad un certo punto il giornalista si abitua a vedere il mondo con un’altra lente sicuramente meno appassionata. I giovani colleghi di oggi sono molto più distaccati rispetto a noi giovani giornalisti del passato; talvolta, sono sopraffatti dalla routine mediatica, mentre, circa il senso critico, credo che il giornalismo lo abbia già perso. Credo, inoltre, che ciò valga un po’ per tutto. Oggi con i Social, con i “like“, con i telefonini non vale più la nostra opinione perché siamo costantemente risucchiati dall’opinione corrente o al massimo dal suo opposto, non esistendo più la via mediana. Non vi è più capacità di analisi, di sintesi e di critica. Il giornalismo, però, ha anche guadagnato molto, nell’essere uno degli strumenti con cui il cittadino oggi ha una variante enorme di visioni del mondo: ognuno sa tutto di tutto in tempo reale, avendo un ventaglio di informazioni in mano grazie al quale può farsi un’idea su tutto».
Ci racconta gli ultimi momenti che precedettero la chiusura de “L’Ora”?
«L’ultima sera, tarda, mi recai in tipografia, facemmo un titolo ben augurante, “Arrivederci!”, con le firme di direttori, intellettuali, politici che volevano che il giornale restasse in vita.
Salutai tutti, abbracciai i tipografi, salii in redazione ove non c’era più nessuno, spensi la luce e così si spense anche qualcosa dentro di me».