Avvertenza
I due fatti storici attorno a cui ruota il presente racconto, relativi alla visita di Mussolini a Catania nel 1937 e alcune vicende connesse all’applicazione del calmiere sul prezzo del pane a Catania da parte della Prefettura, sono fatti quasi sempre reali anche se la dinamica temporale e la natura dei fatti ha risentito di alcune esigenze narrative. Eventuali coincidenze relative a persone o fatti sono da considerare puramente casuali, frutto di esigenze romanzesche. Si avvertono i lettori che uno dei fatti storici, realmente accaduto nel corso di una visita di Mussolini al Municipio di Catania, potrebbero turbare la sensibilità o la suscettibilità di qualcuno per la crudezza dei fatti narrati.
di Santi Maria Randazzo
Solo da poco erano stati spenti i lampioni pubblici a gas che rischiaravano la notte catanese, don Nunzio da vaddia’e l’Ognina, così chiamato perché abitava in piazza Della Guardia nel quartiere di Ognina, mentre era intento al suo lavoro pensava a se stesso, a chi era stato, a cosa faceva fino a pochi mesi fa, a cosa era riuscito a fare per migliorare la sua condizione economica e professionale, al nuovo ruolo sociale che aveva acquisito e che ora gli permetteva di presentarsi agli altri in modo nuovo; soddisfatto del suo nuovo status sociale, don Nunziu si compiaceva nel definirsi quale “Governatore del forno di Vincenzo Tripoli”; più semplicemente, da buon catanese abituato ad essere sintetico nel parlare, quasi “ a parrari a baccagghiu” e sapendo di essere capito da chi doveva capire, con gli altri amava definirsi più semplicemente il “Governatore di Tripoli”, forse assaporando maliziosamente l’immagine che evocava quella definizione. Don Nunzio ancora non sapeva che quel suo modo di autodefinirsi come “Il Governatore di Tripoli” e la sua imprudente voglia di apparire gli avrebbero consentito di aprire momentaneamente porte importanti ma, al tempo stesso, non poteva prevedere quanti rischi gli avrebbero fatto correre queste suea possibilità: di li a poco se ne sarebbe presto reso conto.
Quella mattina di metà settimana, l’alba era sorta da poco in una Catania ancora sonnecchiante, don Nunzio manipolava con gesti circolari e ripetitivi la pasta lievitata, a cui aveva aggiunto dell’olio di oliva, che sarebbe servita per realizzare le forme di pane da cuocere nel forno in pietra di Vincenzo Tripoli, situato in piazza Alonzo Di Benedetto alla “Pescheria” di Catania di cui da alcuni mesi lui ne era il “Governatore”, titolo che gli derivava dal fatto di essere stato nominato capo-operaio responsabile dell’attività di panificazione del forno in cui era stato un semplice lavorante fino a pochi mesi prima. Mentre si apprestava a mettere nel forno le forme di pane, don Nunzio rifletteva sul fatto che il calmiere imposto dalla Prefettura di Catania, in ottemperanza alle disposizioni governative a difesa delle famiglie meno abbienti, rischiava di scatenare un conflitto tra i proprietari dei forni catanesi, i “Governatori” e i lavoranti dei forni e la Prefettura. Questo contrasto latente si rifletteva in particolar modo sui lavoranti e sui “Governatori” dei forni che, come lui, subivano la pressione dei proprietari non disposti a tener conto dei prezzi imposti e calmierati a fronte dell’aumento del costo delle materie prime. Quell’anno, il 1937, sembrava gli avesse inizialmente portato fortuna, visto che da semplice lavorante era diventato il gestore del processo di panificazione del forno di Vincenzo Tripoli , il “Governatore del Forno”, ma ora qualche nube scura si intravvedeva all’orizzonte.
Quella mattina, come faceva di tanto in tanto quasi spinto da una irresistibile, sentimentale nostalgia verso il suo giovanile lavoro, Vincenzo Tripoli passò dal suo forno per vedere come andavano le cose e per parlare un po’ con don Nunzio che era stato un suo antico lavorante, con cui erano in buoni rapporti, e che ora era il “Governatore” del suo forno: “sabbenarica ron Vicenzu” <salutò don Nunzio con il consueto segno di rispetto appena vide don Vincenzo>, “ havi m’pocu ca non si faceva viriri, comu sta ossia, cchi ssi rici?”
“bbonu staiu Nunziu, razii; ma tu u sapisti chiddu ca ci cumminaru ‘o municipiu ri Catania a Mussulini l’autru ionnu? Qualchi vastasi, dignu di fucilazioni alla carina, fici na cosa orripilanti e virgugnusa, nu sghezzu disgutusu e oltraggiusu a Mussulini, ca macari m’affruntu a cuntiratillu; a chiddu ca fici ssu oltraggiu a Mussulini a pulizia ‘u sta ancora ciccannu, ppi sapiri cu fù ca ci cumminau ssu sghezzu pisantuni e ppi darici chiddu ca si merita!“, continuò don Vincenzo.
“No, nenti sacciu di ssu fattu, ma cchi fù, cchi successi? dicitimi”, rispose don Nunzio con una certa apprensione.
“Na cosa ri virgogna ppi Catania e ppe Catanisi; ‘u nostru Duci hao iutu ‘o municipiu ppi fari nniscussu, dopu ca au statu a culonia marina ppi fari visita ‘e picciriddi; Mussulini prima di parrari sau luatu u cappeddu, a bummitta, pusannula supra ‘mmobili: dopu ca finiu u so discussu tunnau ppi pigghiarisi u capeddu e fu tannu ca s’accuggiu ca quacchi disanuratu hao fattu i so fitusi e sporchi bisogni intra u so cappeddu, comu s’avissa stato ncessu. Comu ti po mmaginari succidiu n’finimunnu e subitu a pulizia ciccau di sapiri cu au statu, ma ancora a oggi nana truatu cu cumminau su oltraggiu schifusu a Mussulini.”
“E allura chi successi dopu?” chiese don Nunzio a don Vincenzo che così rispose:
“Ppi futtuna ca dda era prisenti ngalantomu, n’cettu Giuanni Scarfì, unu ca travagghia a cintrali lettrica, ca aveva na bummitta comu a chidda di Mussulini, e fortunatamenti da stissa misura, e iddu ccia desi cu tantu piaciri e anuri ‘o Duci; Mussulini cittau ddu cappeddu, riggrazziau a ddu alantomu ca ci desi u cappeddu e accussì potti nesciri fora do Municipiu senza ca nuddu si n’accuggiu di chiddu ca era successu intra ‘o cumuni. Ma ancora non s’ha pututu scupriri cu fù ssu pezzu di vastasi ca fici ssu gestu oltraggiusu e vili.”
Quel luglio del 1937 era arrivato a Catania con le sue attese, splendide, caldissime ed assolate giornate che accompagnavano l’ormai avanzato risveglio della natura che tanti frutti offriva ai Siciliani; nonostante l’intenso caldo la cima dell’Etna era ancora lievemente innevata ed un fumo denso usciva dal cratere centrale. Il Federale di Catania iniziò di buon mattino la sua attività quotidiana esaminando, nel suo ufficio alla Casa Del Fascio in via Dei Crociferi, le relazioni che gli erano state inviate dai vari organi di polizia, relative allo stato dell’ordine pubblico della provincia ed in particolare della città di Catania; ma in esse non vi era nessun accenno all’individuazione del soggetto che aveva compiuto il vile e oltraggioso gesto nei confronti di Mussolini quando era venuto due settimane prima a Catania, mentre si trovava a pronunciare un discorso al municipio. Le relazioni evidenziavano, invece, come i recenti provvedimenti disposti dal governo al fine di calmierare il prezzo di alcuni beni di prima necessità, in particolare del pane, avevano provocato una presa di posizione contestativa da parte dei fornai catanesi, una associazione professionale molto potente ed unita. Il malcontento dei fornai catanesi era divenuto manifesto in seguito al risultato di una riunione tenuta dai fornai presso la sede della loro associazione, il cui presidente era Vincenzo Tripoli, nel corso della quale si era arrivati a paventare uno sciopero. Don Nunzio venne informato da don Vincenzo Tripoli delle difficoltà che si stavano avendo a dialogare con la prefettura di Catania e che non facevano intravedere alcuno spiraglio positivo, nessuna speranza che si potesse arrivare ad una mediazione accettabile sul prezzo del pane. Don Nunzio da quando era stato nominato capo-operaio responsabile della panificazione del forno di don Vincenzo aveva maturato una nuova, alta considerazione di se e del suo ruolo sociale; cosa che lo induceva, come lo indusse nei confronti di don Vincenzo, a proporsi come soggetto che avrebbe ben saputo gestire la rappresentanza di una categoria, di una lotta: quella poteva essere, pensò don Nunzio, l’occasione giusta per acquisire un ruolo pubblico e rappresentativo, per dimostrare di cosa era capace e, cosa non disdicevole, badare al contempo ai propri interessi. Millantando sue conoscenze e amicizie, di fatto inesistenti, all’interno della Prefettura di Catania e sapendo che le richieste dei panificatori non avevano trovato accoglienza, don Nunzio cercò di sfruttare l’occasione e si propose a don Vincenzo, imprudentemente, come possibile mediatore della categoria per cercare di arrivare ad un compromesso onorevole nel contenzioso che era insorto tra i panificatori e la Prefettura:
“Su vossia non ciavi nenti n’cuntrariu, siccomu haiu ‘namicu ca travagghia a Prifittura ri Catania, iu vulissi pruari a bbissari ssa facenna.”
Disse don Nunzio, spinto dalla sua esigenza di protagonismo e di affermazione sociale ma non immaginando a cosa stava per andare incontro; don Vincenzo soppesò quelle parole, considerando che quel tentativo, alla luce dei risultati delle iniziative precedenti dei panificatori, benché fosse improbabile che potesse avere successo non v’era motivo di ostacolarlo, non si poteva mai sapere.
“Ascuta Nunziu, iu non haiu nenti a ‘ncuntrariu ca tu provi a bbissari ssa situazioni, ma ma ddari u tempu ca iu m’aia sentiri ccu l’autri me culleghi e dopu ti fazzu sapiri.”
L’indomani don Vincenzo Tripoli ripassò da don Nunzio e gli comunicò che anche gli altri proprietari di forni e gli altri panificatori catanesi non avevano nulla in contrario a che lui tentasse di riaprire il dialogo con la Prefettura, quindi lui poteva tentare di operare quella mediazione. Confortato dalla decisione dei panificatori catanesi che gli era stata comunicata da don Vincenzo, don Nunzio si apprestò, l’indomani, ad affrontare il suo battesimo del fuoco nella sua nuova qualità di soggetto pubblico che interloquiva con l’amministrazione dello Stato in rappresentanza di una categoria produttiva. Dopo aver indossato il vestito migliore, quello gessato a righe con il panciotto, la camicia più elegante che aveva e l’unica cravatta che possedeva, don Nunzio si guardò un’ultima volta allo specchio, compiacendosi per il suo aspetto completato da una oliata capigliatura, prima di incamminarsi verso la Prefettura di Catania. Presentatosi alla guardiola, presidiata da due uomini della Questura, venne invitato a spiegare il motivo per cui era lì e che cosa desiderava; con un tono che cercò di rendere quanto più autorevole possibile e facendo ricorso a tutte le sue, non molto estese, conoscenze della lingua italiana, don Nunzio fece presente che aveva necessità di palare con Sua Eccellenza il Prefetto per questioni che riguardava i problemi dei panificatori catanesi. Il responsabile della guardiola, ritenendo di trovarsi di fronte ad uno dei tanti di quei semplicioni che pensavano che fosse cosa facile essere ricevuti dal Prefetto, volendo dissuaderlo senza, però, mortificarlo, cercò in modo educato di fargli capire l’impossibilità di accedere al colloquio diretto con Sua Eccellenza e per essere conciliante volle chiedergli:
“Signor Nunzio le anticipo che non sarà facile che Sua Eccellenza il Prefetto le conceda udienza, mi dica tuttavia chi gli dovrei annunciare.”
Interpretando le parole del poliziotto come una possibilità di accedere al colloquio con il Prefetto, don Nunzio si apprestò a dire nel suo modo stentoreo, conciso e catanese: “Sono il Governatore di Tripoli!”
Colpito da quella inaspettata rivelazione il poliziotto responsabile della guardiola della Prefettura ed il suo collega scattarono immediatamente sull’attenti facendo il salto militare e non sospettando che dietro quelle parole, dette con un tono che appariva sincero e autorevole si potesse celare una insufficienza linguistica del signor Nunzio, si sentì in obbligo di farlo accedere al piano superiore dove si trovava l’ufficio del Prefetto, di farlo accomodare nel salotto di rappresentanza e di avvertire immediatamente il responsabile della segreteria del Prefetto che “Il Governatore Tripoli” chiedeva udienza al Prefetto, non senza una certa emozione nella voce. Coinvolto dalla comunicazione che il Governatore di Tripoli era in Prefettura e chiedeva di conferire con Sua Eccellenza, il responsabile della segreteria prefettizia entrò subito in agitazione e corse subito dal Prefetto per annunciargli che nel salotto di rappresentanza vi era il Governatore di Tripoli che gli chiedeva. Immediatamente don Nunzio fu introdotto nella stanza di Sua Eccellenza; questi una volta al cospetto del Prefetto, un po’ confuso da tale inaspettata, omaggiosa accoglienza e sforzandosi di parlare con quel poco d’italiano acquisito durante il sevizio militare, esordì dicendo: Signor Prefetto, la vogliamo sistemare questa faccenda dei panettieri? A tale richiesta, il Prefetto, uomo molto diplomatico e dotato di uno spiccato intuito, subodorando di non trovarsi di fronte al Governatore di Tripoli, ma volendo sapere chi fosse in realtà quel tizio, fece finta di credere di trovarsi di fronte al vero Governatore di Tripoli e si rivolse al suo segretario, invitandolo ad interessarsi lui della questione e poi, una volta accertati i fatti riferirglieli per poter intervenire per prendere i dovuti provvedimenti; nel frattempo dispose che “Il Governatore di Tripoli” venisse fatto accomodare e che gli fosse servito un rinfresco. Orgoglioso di tanta accoglienza, di cui però non capiva il motivo, senza sospettare che si stava indagando su di lui, don Nunzio si godeva la bibita che gli era stata servita, comodamente seduto in una poltrona. Approfittando della rilassatezza di don Nunzio il segretario di Sua Eccellenza, avviando una apparente conversazione amichevole lo pregò di raccontargli qualcosa della sua attività di Governatore. Sempre facendo ricorso al suo non esteso vocabolario italiano don Nunzio, con un certo orgoglio spiegò al segretario del Prefetto che il suo compito consisteva nel dirigere tutta la panificazione, dalla lievitazione dell’impasto alla temperatura del forno, che essendo lui “Il Governatore del Forno di Vincenzo Tripoli” era il capo-operaio che ordinava quando l’impasto era pronto per essere infornato quando il forno aveva raggiunto la giusta temperatura; che se il forno era poco caldo ordinava di aggiungere una fascina al fuoco, se la temperatura era troppo alta, oltre a togliere la carbonella, passava una scopa bagnata nella base del forno. Resosi subito conto di chi fosse in realtà quel “Governatore di Tripoli” ma avendo compreso che l’equivoco era sorto senza che vi fosse malafede da parte di don Nunzio, il segretario di Sua Eccellenza corse subito ad informare il Prefetto di come stavano le cose. Immediatamente don Nunzio, che non capì quello che stava succedendo, venne fatto accomodare in un’angusta stanzetta guardato a vista da due agenti che gli imposero di stare seduto e zitto, nel mentre venivano acquisite altre informazioni da parte di agenti che si recarono presso il forno di Vincenzo Tripoli. Mancò poco che il povero don Nunzio venisse arrestato, ma dopo parecchie ore passate in quella stanza, mentre nel frattempo erano state acquisite le dovute informazioni sul suo conto ed appurata la sua buonafede, venne rilasciato non prima che il segretario gli gridasse che quella strada e quel palazzo li doveva dimenticare. Fatto accomodare fuori dalla Prefettura, don Nunzio, guardando un’ultima volta il palazzo prima di incamminarsi velocemente verso il forno di don Vincenzo, tirò un profondissimo sospiro di sollievo.