Avvenimenti tragici che passano (quasi) inosservati ormai da troppo tempo: i suicidi che si riscontrano fra quanti indossano una divisa. Poche righe a commento di un fatto di cronaca, che tocca (almeno apparentemente) soltanto i familiari della vittima e i colleghi. È un argomento delicato che si preferisce ignorare? Forse perché l’atto estremo è un “atto individuale” che riguarda la persona che lo compie e quindi si preferisce ignorarne le ragioni, le cause, le profonde motivazioni che lo provocano? Difficile dare una risposta a questi interrogativi, tenuto conto che, nella maggior parte dei casi, poco si apprende. Ci si chiede ancora: “Le competenti Autorità cosa fanno per comprendere la natura dei troppi episodi che si verificano sempre più spesso?”. I media di grande diffusione non approfondiscono il “fenomeno”, e non si hanno risposte istituzionali.
Abbiamo avuto l’opportunità di leggere su “Difesa Online” un articolo di Guido Mazzarella, che contiene una significativa intervista a un esperto, il dottor Cleto Iafrate. Riteniamo utile, per una ulteriore divulgazione, per far conoscere anche ai nostri lettorila gravita del problema. Questo articolo lo riportiamo integralmente: a nostro avviso dovrebbe far riflettere.
La “Strage silenziosa”
di Guido Mazzarella
“Strage silenziosa”, così viene chiamato negli ambienti militari il fenomeno che negli ultimi anni si registra in Italia tra il personale delle forze armate e di polizia, ovvero “inspiegabili suicidi” commessi in servizio. Dati allarmanti che non sembrano preoccupare concretamente vertici politici e militari che, anzi, tentano invano di insabbiare.
Per una maggiore comprensione abbiamo ritenuto utile intervistare un esperto, il dott. Cleto Iafrate, da anni impegnato sul fronte dei diritti dei militari.
Quanti sono i suicidi “in divisa” negli ultimi due anni?
Da qualche anno ho creato su Facebook un gruppo denominato “Osservatorio Suicidi in Divisa” che accoglie le varie segnalazioni di accadimenti di questo tipo e ogni ulteriore notizia utile per far luce sul tragico fenomeno dei Suicidi tra i cittadini in divisa.
Lo scorso anni l’Osservatorio ha registrato circa settanta suicidi, quest’anno ha ricevuto già trenta segnalazioni, e siamo ancora a luglio.
Ma i numeri effettivi sono certamente superiori. Perché spesso i familiari, per vari motivi, tendono a non rivelare la causa della morte.
Secondo i dati e le informazioni dell’osservatorio, quale potrebbe essere il nesso che collega tutti questi suicidi?
Non c’è un nesso unico che collega tutte queste morti. Posso solo dire che il fenomeno è allarmante e andrebbe approfondito. Si consideri che i cittadini prima di essere assunti nelle forze armate e di polizia vengono sottoposti a severe analisi psichiche il cui superamento non è alla portata di tutti. Questo a dimostrazione che i problemi psichici, che spesso portano l’estremo gesto, prima dell’arruolamento non c’erano.
Pertanto, c’è da considerare il fatto che potrebbe essere proprio l’ambiente militare ad incidere negativamente sull’equilibrio psichico dei cittadini in divisa. Ad esempio, le tecniche di addestramento militare tendono a reprimere la personalità dell’individuo e i vetusti e irrazionali regolamenti militari spesso comprimono le libertà costituzionali.
Cosa stanno facendo l’Amministrazione Difesa e il governo italiano per trovare una possibile soluzione a tale fenomeno?
In alcune caserme sono stati istituiti dei centri di ascolto a disposizione di coloro che ritengono di avere qualche disagio psicologico. Ma i cittadini in divisa hanno paura di aprirsi e di confidarsi, perché temono la sospensione dal servizio attivo e la conseguente decurtazione dello stipendio.
Quanto l’Amministrazione Difesa è vicina alle esigenze del personale militare?
L’Amministrazione Difesa è vicina in diversi modi alle esigenze del personale militare, ma parte sempre dal presupposto che i motivi del disagio siano riconducibili esclusivamente a meri problemi personali e familiari.
Anche se in molti casi i suicidi non avvengono in casa, ma nei luoghi di lavoro. In passato, per esempio, in alcune caserme, il suicidio è stato preceduto da un omicidio, il militare prima di togliersi la vita ha sparato al proprio comandante. In alcuni casi, inoltre, i familiari delle vittime non hanno voluto la presenza dei colleghi e superiori ai funerali.
Di fronte a tali evidenze, è sbagliato ritenere che la colpa sia sempre delle mogli.
In che modo ritiene possa essere affrontato tale fenomeno?
Sono convinto che il fenomeno dei suicidi in divisa debba essere meglio indagato.
Andrebbe istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta che abbia libero accesso a tutti i fascicoli personali e ai fogli matricolari delle vittime di suicidi e di tutti i militari che dopo l’arruolamento presentano disagi psicologici.
Mi sento di aggiungere che l’atteggiamento delle amministrazioni militari verso la cultura spesso rasenta l’ostilità. Il caso dell’avvocato Emanuele Scieri, il giovane parà spinto giù da una torretta di addestramento e poi lasciato morire, ne è un chiaro esempio.
Pensi che ho conosciuto molto da vicino un finanziere laureato in Economia e Commercio la cui cultura generale per anni è stata valutata con minor pregio di quella dei suoi colleghi con la quinta elementare. E questo ha pesato enormemente sulla sua progressione di carriera, impedendogli di partecipare ai vari concorsi interni che richiedevano la valutazione di almeno “superiore alla media”. E non è un caso isolato!
Dunque, il comparto militare sembrerebbe atteggiarsi, a causa del suo ordinamento e delle sue regole, anche non scritte, come un micro-Stato annidato in seno allo stato democratico.
Un micro-Stato nel quale “il militare è ridotto a mero strumento della macchina bellica che lo trasforma in docile esecutore di un’altrui volontà, alla quale egli è tenuto a piegarsi”1.
In tempo di pace andrebbero ricercate nuove regole e forme di educazione militare alternative, basate su logiche condivise.
Il militare, insomma, non dovrebbe subire l’ordine ma condividere delle procedure.