di Valter Vecellio
Nelle elezioni regionali (Toscana, Veneto, Liguria, Marche, Campania, Puglia) calcisticamente parlando, un pareggio: tre a tre. Ma la politica è altra cosa. Il centro-destra può sostenere di aver conquistato una regione (Marche), ma è una vittoria di Pirro. L’unica che può dirsi davvero soddisfatta è Meloni, incrementa i suoi voti a spese di Lega e della berlusconiana Forza Italia; ma nel complesso, il bacino elettorale della destra rimane intatto. Legittimamente tira un sospiro di sollievo il PD, e in particolare il suo segretario Nicola Zingaretti. La temuta Caporetto è scongiurata. Ma il punto resta: cosa fa la politica contro la regressione? Contro l’indifferenza, l’incattivimento, la delusione, la frustrazione, l’egoismo, la sguaiataggine, la volgarità?
Il vecchio cronista parlamentare ne ha viste di ogni tipo, non è cinico, ma l’esperienza lo rende disincantato. Non ha mai nascosto la sua contrarietà alla riforma costituzionale e di buon mattino, domenica ha tracciato la sua icx sul NO e deposto la scheda. Poi su un foglietto ha vergato il suo pronostico: metà del paese per una ragione o per l’altra non sarebbe andata a votare; l’altra metà si sarebbe divisa due terzi per il SI alla riforma, il resto per il NO. Pronostico sostanzialmente azzeccato.
E ora? gli chiedo. Sorride. Non ha perso il buon umore; messinese da cinquant’anni trapiantato a Roma, riformatore anche da ragazzo, quando i suoi coetanei pasticciavano di rivoluzione. Sospira: “Passau u’ tempu ca Betta filava”. Quindi ora va male?, insisto. “Guardiamo avanti”, esorta.
Proviamo, a guardare; e vedere, soprattutto. Quali saranno le possibili, concrete, fattuali conseguenze di questo voto? Fatta la debita premessa che è prematuro stabilire quale può essere il rapporto causa/effetto e che più di sempre sono complicate e complesse le alchimie della politica italiana, si può partire da dati di fatto: il 47 per cento di aventi diritto al voto si è astenuto, vuoi perché indifferente, o deluso o indeciso. Non è la prima volta. E’ una “rivolta” che si rinnova, quello di una fetta consistente di elettorato che ritiene di non dover dedicare una manciata di minuti per votare. E’ un fenomeno che meriterebbe una meditata riflessione.
Del restante 53 per cento dei votanti il 70 per cento circa ha votato Sì alla riduzione dei parlamentari. Il 30 per cento No. Una vittoria netta del Sì. Ma anche qui, una briciola di riflessione non guasterebbe. Si tratta del 70 per cento del 53 per cento. Dunque nessuno può sostenere che sia la maggioranza degli italiani. E’, piuttosto, la maggioranza dei votanti, cosa differente.
Doveva essere un plebiscito; non è andata così. Nonostante la sostanziale confisca di informazione e conoscenza pervicacemente operata. Anche qui, è opportuna una riflessione. Negli ultimi giorni si è creato un “cartello” di giornali che si sono apertamente schierati per il No: da “Repubblica” all’“Espresso”; da “La Stampa” ad altri giornali, carta stampata e on line. I Sì hanno ugualmente prevalso. Questo rivela, ancora una volta, la perdita di influenza dei tradizionali mezzi di informazione. Un fenomeno confermato dal calo verticale delle vendite dei giornali, e relative tirature. Hegel, in una sua famosa notazione, sostiene che la lettura del giornale è la nuova preghiera del mattino dell’uomo moderno. Ecco: l’uomo post-moderno fa a meno di questa preghiera, “religione” ormai di una ostinata minoranza.
L’informazione, la conoscenza, passano ancora, in buona parte, per la TV e le radio; ma questa volta non si è saputa (voluta?) assicurare la necessaria informazione e conoscenza: pochi e slabbrati i programmi di approfondimento; ridicole le tribune elettorali, con il paradosso che spesso sono perfino state disertate dai sostenitori del Sì.
Si è capita una cosa: che meno si informava, si metteva l’elettore in condizione di conoscere esattamente la posta in gioco, e più era facile vincere il referendum.
L’anziano cronista riprende il filo del suo ragionamento:
“Di più non si poteva fare. Un terzo dei votanti ha detto No al taglio dei parlamentari, fortemente voluto dal Movimento 5 Stelle. Tanti, se si ricorda che tanto le forze di maggioranza quanto quelle di opposizione erano ufficialmente schierate a favore del Sì. Un risultato che si dovrà far valere quando si parlerà della legge elettorale. Una “proporzionale” con una soglia di sbarramento che non pregiudichi la rappresentatività popolare, e preferenze che permettano all’elettore di scegliere il candidato preferito. Oppure ancora una volta un Parlamento bloccato, con una Camera e un Senato di nominati dalle segreterie dei partiti, e uno sbarramento del cinque per cento che non permetterebbe l’ingresso in Parlamento ai candidati di liste con circa due milioni di voti. Vedremo. E prepariamoci a batterci per difendere la democrazia parlamentare contro i tentativi di creare un regime che somiglierebbe parecchio a quelli che piacciono a Orban, Salvini e Marina Le Pen”.
In parallelo, le elezioni amministrative, in sei importanti regioni. Scontata la riconferma, in Veneto, del presidente uscente, il leghista Luca Zaia, anche se il suo è stato un trionfo inaspettato, superiore ai più ottimistici pronostici: un 70 per cento circa di elettorato, un successo legato quasi tutto alla sua persona, un Sì alla gestione della sua regione, per inciso fortemente colpita dal Covid (e l’emergenza, va riconosciuto, è stata ben fronteggiata).
Prevista anche la conferma, in Liguria, dell’uscente Gianni Toti; nelle Marche dopo 25 anni di “regno” del centro-sinistra la presidenza va a Francesco Acquaroli, candidato unitario del centro-destra che è di osservanza Fratelli d’Italia, la formazione politica di Giorgia Meloni. La Toscana resta nel campo progressista, si afferma il candidato del centro-sinistra Eugenio Giani; la candidata leghista Susanna Ceccardi non sfonda. In Campania è il trionfo del presidente uscente Vincenzo De Luca: al candidato del centro-destra Stefano Caldoro, lascia un misero 20 per cento. Anche in Puglia vittoria del centro-sinistra: l’uscente Michele Emiliano sconfigge il candidato della destra Raffaele Fitto.
Calcisticamente parlando, un pareggio: tre a tre. Ma la politica è altra cosa. Il centro-destra può sostenere di aver conquistato una regione, ma è una vittoria di Pirro. L’unica che può dirsi davvero soddisfatta è Meloni, incrementa i suoi voti a spese di Lega e della berlusconiana Forza Italia; ma nel complesso, il bacino elettorale della destra rimane intatto. Legittimamente tira un sospiro di sollievo il PD, e in particolare il suo segretario Nicola Zingaretti. La temuta Caporetto è scongiurata. Gli avversari esterni e interni dovranno ora rivedere le loro strategie, e rinunciare a dissotterrare, per ora, le loro scuri. L’opaca, “grigia” tattica zingarettiana, per ora paga. Certo, il partito dovrà prima o poi porsi il problema che due regioni come l’Emilia-Romagne e la Toscana non sono più quei feudi indiscutibili di un tempo; ma hic et nunc, il motivo di soddisfazione è che non siano state espugnate.
C’è uno sconfitto: si chiama Matteo Salvini. Dopo la vittoria in Umbria, è seguita la disastrosa (politicamente) estate del Papeete; e da allora, il leader della Lega ha inanellato una lunga serie di rovesci: i più clamorosi, la mancata conquista della regione Emilia-Romagne, dove era sceso pesantemente in campo; e la sconfitta in Toscana, dove ha speso una sua candidata.
Non solo: Zaia, con il suo trionfo, acquista ora una dimensione nazionale, e di fatto fa ombra al suo finora incontrastato dominio; un dominio peraltro messo in discussione dal disimpegno polemico di Giancarlo Giorgetti, potente uomo-macchina del partito. In più, sul collo il “fiato” di imbarazzanti inchieste della magistratura.
Il M5S si può intestare l’effimera vittoria del referendum. Ma non compensa i magri raccolti dei suoi candidati alle amministrative; anzi, appare più che mai evidente la miopia del suo gruppo dirigente, l’inconsistenza politica, e conseguente scarsa credibilità presso l’elettorato. Un Movimento sempre più dilaniato al suo interno, una guerra clandestina tra i seguaci di Davide Casaleggio, Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio; e un “garante”, Beppe Grillo, che non riesce più a controllare il Golem cui ha dato vita.
Da ultimo: Matteo Renzi e la sua Italia Viva: risultati complessivamente penosi: una rana che si crede bue, e alla fine scoppia; anche dove si è realizzato un cartello comune con “Azione” di Carlo Calenda e Più Europa di Emma Bonino-Benedetto Della Vedova, la conferma che sommare uno più uno più uno, in politica non fa mai tre, resta uno. Si sono voluti contare, ora si sa quanto “pesano”. Ne prenderanno finalmente, atto e si comporteranno di conseguenza?
Ci sarà una crisi del governo di Giuseppe Conte? In realtà non la vuole nessuno; oltre i tre quarti dei parlamentari in carica non saranno più rieletti; e nessuno di loro ha intenzione di lasciare la “postazione” prima del dovuto. Un’alternativa seria all’attuale coalizione, non esiste. Andare a elezioni anticipate in queste condizioni sarebbe una follia: per chi si candida, ma soprattutto per il paese: una crisi economica che galoppa, una ripresa che non si vede; una pandemia che rischia di provocare nuovi danni; l’Europa e le banche che controllano ogni nostro sospiro, ben attente a quello che facciamo, e l’obbligo di essere e apparire credibili, se si vuole poter utilizzare i fondi europei che ci sono indispensabili… Insomma, dove non arriva la virtù, interviene la necessità. E presto scatterà il semestre bianco. La legislatura, nonostante mille turbolenze, probabilmente si esaurirà a naturale scadenza. Non è detto sia un male, anzi.
Prima di chiudere queste riflessioni, propongo un ‘salto’, apparente: i tragici fatti di Colleferro. In questo grosso comune della cintura romana, un ragazzo di 21 anni, colpevole di aver aiutato un amico aggredito, viene ucciso a calci e pugni. Qui, non importa ragionare sui quattro arrestati per il delitto, i loro valori, i tatuaggi, le pose per i social; è affare di chi studia la psiche umana, e per quanto riguarda il profilo penale, dei magistrati.
Come singoli e collettività, la domanda da porre è: quanti sono i ‘luoghi’, i paesi come Colleferro, in Italia? Quanti, come quei quattro sciagurati? Che tipo di valori e di vita sociale, aggregazione politica, culturale? E’ una regressione che si manifesta con episodi come quelli di Colleferro che per qualche giorno fanno ‘notizia’, ma che si riflettono in mille micro-episodi ogni giorno. Una regressione inquietante; e maggiormente inquieta che non inquieti a sufficienza, e che non si riescano a individuare correttivi, rimedi. Almeno un tempo la Chiesa svolgeva, discutibile fin che si vuole, un ruolo di cerniera; ora anche questo argine viene meno. E per tornare ai partiti:nessuno, da destra e da sinistra, si pone il problema.
La politica sempre più è percepita come occupazione di potere, oligarchie che spartiscono postazioni di comando, tecnicamente, ma anche fattualmente, irresponsabili. E non parliamo del sindacato. Insomma, i citati corpi intermedi che non ci sono più, non intercettano, non mediano, non svolgono più il fondamentale ruolo di cinghia di trasmissione.
Un tempo forse si esagerava con ‘tutto è politica’; ma dal ‘tutto’ si è passati al suo opposto, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Non è nostalgia per il vecchio modo di fare politica: ce lo siamo lasciato alle spalle, là resti. Ma quel ‘vecchio’, è sostituito da un deserto umano, politico, culturale, da un ‘vuoto’ terrificante. Un ‘vuoto’ che si nutre e alimenta di indifferenza, incattivimento, delusione, frustrazione, egoismo; sguaiataggine, volgarità.
Quella che va recuperata è una soglia minima di decoro. E’ questo, anche, il ‘messaggio’ che viene da queste elezioni: la richiesta, l’esigenza.
Al di là di questo, quello che leggeremo nelle prossime ore e giorni è semplicemente fuffa e muffa.
LA VOCE DI NEW YORK