di Santi Maria Randazzo
Nel numero 47/2014 della rivista “ Agorà”, periodico di cultura siciliana, veniva pubblicato un mio articolo dal titolo: “ Ugo Saitta e Giuseppe Berretta”, con il quale si metteva in evidenza il ruolo del prof. Giuseppe Berretta quale diretto e principale collaboratore di Ugo Saitta e coautore per i soggetti e le sceneggiature del noto regista catanese. Giuseppe Berretta, inoltre, era sicuramente profondo conoscitore, oltre che di Dante di cui era apprezzato studioso, di Martoglio e del teatro dialettale siciliano. Grazie alla generosità della famiglia del defunto prof. Berretta, abbiamo potuto recuperare una serie di lavori inediti i cui originali sono stati donati dalla sua famiglia alla biblioteca dell’Archivio di Stato di Catania ed una copia degli stessi alle Biblioteche Riunite e Ursino Recupero di Catania. Il presente articolo riporta il testo di una conferenza tenuta da Giuseppe Berretta nell’aula magna della facoltà di Lettere dell’università di Catania, in data 16 marzo 1973, a palazzo San Giuliano. La conferenza era stata annunciata sul quotidiano “ La Sicilia” del medesimo giorno ed il giorno successivo, sullo stesso quotidiano, è stata l’oggetto di un positivo e dettagliato articolo nella “ Cronaca di Catania”, a firma G.F.C..
Ma lasciamo parlare l’autore; siamo dentro l’aula magna della facoltà di Lettere e lo ascoltiamo:
“ Dico subito che la mia conversazione non pretende assolutamente di essere una valutazione critica dell’opera martogliana, la quale non so quanto potrebbe giovarsi di un puntiglioso esame critico e non so neanche quanto potrebbe reggere a un confronto simile. Penso anche che non possa portar a novità di qualche momento un tentativo di sistemazione storica in riferimento alla stagione deriva o attraverso un confronto, per esempio con Carlo Bertolazzi o addirittura con Salvatore Di Giacomo. La mia vorrebbe essere una riflessione direi quasi privata, possibile solo qui, a Catania, fra noi Catanesi, che tenti di chiarirci un po’ meglio che cosa siano stati per noi catanesi, per la nostra cultura più elementare e autoctona, che cosa ancora siano Martoglio e il suo teatro e perché lo siano. Le opere del Bertolazzi o anche quelle di Giacinto Gallina sono ormai pressoché pezzi di antiquariato e anche mettere in scena un dramma di Salvatore Di Giacomo è già una operazione di filologia teatrale. La tradizione dei teatri dialettali è agonizzante, se non già estinta, dappertutto e, dopo la splendida stagione dei De Filippo, perfino a Napoli. A Catania, oltre al teatro Sicilia, per non parlare delle innumerevoli iniziative dilettantistiche, esistono oltre tre formazioni stabili, che svolgono attività, continua e professionale, di teatro dialettale. Certo, noi cosiddetti intellettuali preferiamo, quando preferiamo qualcosa in questo campo, il teatro delle muse o uno dei teatri sperimentali o, nelle rare occasioni che ci offre, il Metropolitan. Ma quegli altri teatri hanno evidentemente un loro pubblico, ben più vasto, che ha la sua estrazione soprattutto nei piccoli ceti medi e nella classe popolare e presso cui, dunque, è vivacissima quella tradizione. Ebbene, queste compagnie rappresentano esclusivamente opere di Martoglio o di quegli autori, anch’essi catanesi, come Giuseppe Russo Giusti o Pippo Marchese o Giuseppe Macrì che scrissero sotto l’influenza e, soprattutto, per lo stimolo, più o meno immediato, del Martoglio. E la tecnica recitativa di quegli autori , anche dei più famosi, come Turi Ferro o Umberto Spadaro, quando si accostano a quel repertorio, è ancora fedele a una tradizionale tecnica recitativa, che si avvale perfino di precisi loci comune gestuali, mimici, di trucco facciale, di abbigliamento e che risale ai grandi attori come Musco, Grasso, la Bragaglia, la Aguglia, Pandolfini, Marcellini, la Anselmi, che si formarono e, soprattutto, stilizzarono la loro recitazione nelle formazioni teatrali martogliane sotto la sua guida e la sua regia, che furono sempre puntuali, e minuziosissime. Se poi si pone mente che anche a livello di coscienza teatrale nazionale, e del cinema e della televisione, quella tecnica recitativa, comprese perfino le inflessioni dialettali catanesi, coincidono con la espressione teatrale della sicilianità, non si può non riconoscere che questa, come è ancora oggi, viva, deve la sua esistenza, i suoi caratteri, la sua vitalità all’opera di scopritori di talenti, di impresario, di suscitatore e organizzatore di energie ma soprattutto di autore e di regista di Nino Martoglio e alla sua stessa dizione, appunto, della sicilianità. Qualcuno ha indicato il 1863 come l’anno di nascita del teatro siciliano. In quell’anno, come si sa, fu rappresentato per la prima volta dai due autori, Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, quel I Mafiusi da Vicaria, che di recente Leonardo Sciascia ha voluto riproporci in stesura riveduta, aggiornata, ma con risultati piuttosto discutibili. Altri, invece, hanno cercato più nobili natali nella prima rappresentazione di Cavalleria Rusticana. Ma il primo dramma, I Mafiusi, rimase senza seguito e incapace di creare una tradizione se non a livello strettamente locale e popolarissimo. L’altro, Cavalleria Rusticana, al contrario, si inserì subito in un contesto teatrale e culturale italiano, anzi europeo: fu recitato per la prima volta nel 1884 a Torino ed ebbe ad interprete Eleonora Duse, dopo qualche mese passò a Parigi. Si qualificò, insomma, subito come una delle massime espressioni del momento verista del teatro europeo e, a quel livello, fu presto travolto dall’avvento del teatro decadentista. Ma è ovvio che qui non si tratta di stabilire una astratta data di nascita, ma di individuare il momento in cui una tradizione teatrale si stabilizza, dopo aver tradotto in schemi scenici, in tecnica di recitazione, in modelli teatrali duraturi la struttura culturale e psicologica di una precisa società che in essa si riconosce e, per ciò stesso, le assicura vitale continuità. Cavalleria Rusticana arrivò presto alle scene popolari siciliane, diventò col tempo uno degli schemi teatrali più paradigmatici in cui si riconosceva una precisa sensibilità locale, ma è indicativo che ciò sia avvenuto attraverso la mediazione di quella vitalissima matrice teatrale che era a quel tempo, a Catania, l’ambiente dell’ Opera Dei Pupi. Da parecchi anni, ormai, i pochissimi superstiti pupari, come i fratelli Napoli, non hanno più una sede propria, vagano da un baraccone improvvisato a un teatrino parrocchiale, di cui non rimangono ospiti, come in questo momento, solo per qualche mese, non pensano ad alcun altra forma di attività teatrale e si limitano a ripetere le storie, di cui da tempo non rinnovano più, ne arricchiscono, il repertorio. Quest’ultimo fenomeno ha conferito all’opera dei pupi, proprio nella fase del suo definitivo tramonto, una ulteriore suggestione. Le storie si sono irrimediabilmente fissate nei loro canovacci e sono divenute inviolabili come arcane memorie storiche sulla coscienza degli spettatori, che non tollererebbero alcuna variante, alcuna novità. La rappresentazione stessa si svolge con la stessa sipidezza di un rituale liturgico. Il puparo può, anzi deve, improvvisare le battute, ma i particolari della azione, la sua distribuzione fra le scene e le varie serate in cui si suddivide, l’abbigliamento e i movimenti dei pupi devono essere sempre invariati, come li tramanda la storia, di cui il pubblico stesso si sente custode e garante. Ciò ha dato all’opera dei pupi un carattere sacrale, molto vicino all’origine stessa di ogni fenomeno teatrale, ma ha contribuito forse, con la conseguente monotonia, ad accelerarne la fine. Ma questa ascetica fedeltà alla tradizione non esisteva ai tempi ruggenti del Machiavelli, di don Angelo e poi di Giovanni Grasso. Quasi nulla sappiamo del quasi mitico primo Giovanni Grasso, il padre dello stesso don Angelo; a lui una certa tradizione attribuisce il merito di aver importato da Napoli le marionette e di averle inserite nella tradizione cavalleresca siciliana. Ma, se ormai questa paternità dell’ opera dei pupi appare poco attendibile, sembra certo che essa non abbia un’origine molto remota e che siano stati appunto il primo Giovanni, il figlio Angelo e i Crimi, l’altra famosa stirpe di pupari a loro contemporanea, a fissare sugli attuali canovacci le storie che all’opera confluivano dai Reali di Francia, dal Guerin Meschino, dalla Gerusalemme Liberata e, soprattutto, dalla vivacissima tradizione dei cantastorie. E’ naturale che queste trame, sul corso della loro elaborazione locale, siano venute configurandosi come sublimazioni fantastiche di ideali, di costumi, di schemi ideologici e sentimentali tipicamente siciliani. In primo luogo, naturalmente, nelle storie di Orlando, di Ruggero, di tigreleone il gusto dell’avventura fantastica, la esaltazione della forza e del valore, il senso dell’onore e della lealtà, inteso come omertà: nella bocca dei pupari e, fino a qualche tempo fa, anche in quella del popolo, la parola omertà ha conservato il suo significato etimologico di complesso di quelle virtù che fanno nella mentalità siciliana tradizionale, di un uomo un vero uomo: indipendenza, lealtà, coraggio, forza, custodia gelosa del proprio onore e dei propri sentimenti più intimi, di fiducia nelle proprie forze e capacità di contare solo su di esse, per cui inarrivabile campione di omertà è Orlando. Ma in altre numerose storie, come quella di Ida di Atene, del moro Marquido, di Gemma della Fiamma, di Guido di Santa Croce, domina l’elemento amoroso-romanzesco tipico della narrativa popolare, ma anche questo, fortemente segnato di impronta locale: sono storie di amore e di onore, di violenze, di rapimenti, di matrimoni contrastati, di fughe di innamorati e, perciò, di vendette di padri e di fratelli. Sono le storie che ancora rappresentano i pupari tradizionali, ma che a suo tempo ebbero la loro elaborazione teatrale e furono fissate nei loro tratti caratteristici. Ma non soltanto queste storie favolose i pupi recitavano: i pupari di allora, i Grasso, soprattutto, ma anche i Crimi, tentarono altre storie più attuali stessi dicevano. Si legge in una lettera di Giovanni Grasso a Martoglio: Le storie che di preferenza rappresentava mio padre erano: I Reali di Francia, Guerino detto il Meschino e la Gerusalemme Liberata … . Egli rifece la storia di Vittorio Emanuele e di Garibaldi e insegnò al popolino la venerazione dei Grandi”. Lo stesso Martoglio ci ha lasciato la trascrizione di due scene di questa storia di Garibaldi, che egli può aver visto in una probabile ripresa dello stesso Giovanni, vale la pena di rileggerle per la straordinaria capacità di assimilazione sugli schemi consueti di elementi di narrativa inizialmente così lontani ed estranei:
Garibaldi si trova in America con Anita.
La scena rappresenta una foresta.
– Finalmente, mia cara sposa Anita, ci troviamo in questa foresta, per vedere se c’è qualche infelice che ha bisogno di aiuto, per così salvarlo.
– Si, mio diletto sposo Garibaldi, perché tu, essendo chiamato il cavaliere dell’umanità, non devi far altro che aiutare i derelitti. Ma che sento ? Ecco una lamento lontano !
– Si, è una voce umana di donna. Presto, corriamo alla salvezza !
Cambia la scena e si vedono due pellirossa condurre una donzella.
– Vaja, arranca, arranca !
I pellirossa parlano in siciliano: lo stesso dialetto è sempre nell’opera dei pupi, espressione realistica di prosaicità e anche di malvagità. In dialetto parla non solo Peppenino, ma anche Gano di Magonza, in contrasto con l tentativo di italianizzazione aulica del siciliano che è nella parlata degli eroi. La donzella, spaventata, implora:
– Oh Dio! Voglio a mio padre, voglio a mia madre !
– Se vuoi a to padre e songo io, se vuoi a to matri è quello.
Questa volta il pellerossa cerca di italianizzare la sua parlata per farsi comprendere dalla donzella. Intervengono Garibaldi e Anita.
– Olà, a voi, mascalzoni, lasciate questa ragazza, se volete salva la vita !
– Chi dici? E tu chi mi rappresenti ? Compagno, ammazzamo a questo cretino !
– Ah si ? Anita !
– Garibaldi !
– Fuoco ! ( Pum, pum! )
– Ahi ! ahi ! Semu morti !
Ma Giovanni Grasso eleva l’ordine recitare ai suoi pupi Cavalleria Rusticana. In occasione di una di queste rappresentazioni Martoglio accompagnò al teatro Machiavelli il grande tragico Ernesto Rossi, che incoraggiò il Grasso ad abbandonare definitivamente le marionette e a fare l’attore. E il Grasso rimise in scena Cavalleria Rusticana, non più con i pupi, ma in personaggi. Lo stesso Martoglio fissò in due sonetti che appaiono in Centona le impressioni di quella memorabile serata. Il dialogo si svolge fra due donne, di cui una popolana:
– E’ a Cavalleria Rusticana … – Sissignura, accussì! … Chi cosa ranni ! – E’ un dramma ca fu scritti di Giuvanni … – Giuvanni Grassu, ‘u sacciu ! Vastiana u canusci; po’ aviri vintott’anni … – Ma chi ! … Giuvanni Virga ! O Virga o nana [?] u fattu è ca mi vinni na quorana [??] ‘ntr’ò menzu ‘u cori ! Vih, chi focu ‘ranni ! – Pirchì ? – Ci pari nenti parennu[?] chi ridu ci muzzica l’oricchia ? … E dda gran schigghia: “ Hannu ammazzatu a cumpari Turiddu! …” M’arrizzanu ‘i carni, vah! … E dda figghia di Santa, sventurata ! … E chidda ‘e l’ova ? Chi dramma naturali, malanova !.
Del resto l’opera dei pupi era tutt’altro che nuova ad imprese del genere. Non solo a loro tempo Angelo Grasso e, per loro conto, i Crimi avevano indossato le armature delle marionette per rappresentare le imprese di Guerin Meschino, ma, regolarmente, nei teatrini, alle rappresentazioni di pupi venivano alternate commedie a soggetto, canzoncine comiche, macchiette, sceneggiature di romanzi e di novelle culturali. Il Grasso mise in scena raffazzonature di Le Due Orfanelle, di Margherita Pusterla e di una quantità di altri romanzi di appendice. Nell’anno 1900 al teatro San Carlino furono suddivisi in una quindicina di spettacoli serali I Miserabili. Autore delle tradizioni, degli adattamenti era per lo più quel vulcanico e originale personaggio che fu Peppino Fazio. Fu il Fazio a suggerire, con enorme successo, a Giovanni Grasso, di rappresentare la sera stessa il fattaccio del giorno narrato dalla cronaca nera dei giornali. Così, anche per questa via, il teatro si sostituiva ai cantastorie nel compito di interpretare, ma ora in forme sceniche, corali, nel vivo della rappresentazione e della partecipazione del pubblico, i miti, gli ideali, le emozioni di una precisa comunità sociale. Su questo piano avvenne il primo incontro con il Martoglio. Il Grasso cominciò a far recitare le poesie, le tiritere, i dialoghi con cui il Martoglio commentava satiricamente, dalle colonne del D’Artagnan, fatti e figure quotidiane di Catania. E a un certo punto, servendosi di quel materiale, fu imbastita una specie di rivista di vita cittadina in cui Musco faceva la parte di Piripicchio. L’intuizione più felice del Martoglio è stata quella di aver visto gli umori vitali e le possibilità che erano in questo fervore tumultuoso di creatività teatrale e di essere voluto intervenire per disciplinarlo, per dargli uno stile, per discriminare quanto di dispersivo, di grossolano o di estraneo inquinasse la sua prorompente autenticità, pur formalizzandolo in una espressione teatrale nuova che fosse la immediata, ma criticamente riflessa, trascrizione di una precisa realtà umana e sociale. Nell’imminenza del debutto della prima delle cinque formazioni teatrali che egli successivamente organizzò e diresse, scriveva: Io voglio rispecchiare, con la dovizia che ho di lavori paesani dei più illustri scrittori nostri, tutte le facce del brillante poliedro che è l’anima popolare della nostra gente, e nelle diverse classi e in tutte le gradazioni sociali, soffermandomi d’avvantaggio su tutto quanto vi è in Sicilia di più caratteristico e colorito e unita insieme. Suo obiettivo fu, dunque, creare un teatro dialettale, che, senza tradire la schiettezza e la verità originarie, coinvolgesse tutte le componenti della cultura, della società, della sensibilità siciliana. Già con le serate di dizione di versi dialettali di tutte le regioni di Italia che negli anni precedenti, dal 1899 al 1901, aveva organizzato nei teatri di Firenze, di Roma, di Milano e a cui avevano partecipato poeti come Renato Fucini, Ferdinando Russo, Trilussa, Barbarani, Restoni, Faustini, Piazza, egli aveva dimostrato le sue capacità di organizzatore culturale e la lucida coscienza della necessità che l’arte e la letteratura non recidessero mai le loro radici dalla realtà umana più viva, attuale, ambientale e si alimentassero anche del contatto immediato con il pubblico, con la società vivente. Questo canale di comunicazione a doppio senso, questa capacità di interazione egli scoprì sul teatro e gli fu rivelata dall’ opera dei pupi, da tutti gli spettacoli che in essa si svolgevano, dalla intensa partecipazione popolare in quei teatrini. A quello scopo egli dedicò per intero l’ultimo ventennio della sua non lunga vita. E sarebbe superfluo rievocare in questa sede e dinanzi a questo uditorio le fasi di questo impegno totale, le varie compagini teatrali di cui fu alla testa, i successi, gli insuccessi, le delusioni e le amarezze, il doloroso dissidio con Grasso e poi con Musco. Ma si che in una introduzione a Centona, pochi mesi dopo la sua morte Luigi Pirandello potè scrivere di lui: “Tutti immaginano facilmente le grandi soddisfazioni che l’esito trionfale d’alcune commedie gli procurò; ma nessuno forse immagina quanto gli costò d’amarezza, di cure, di fatiche e anche di denari il teatro siciliano che vive massimamente per lui e di lui e di cui egli fu il vero ed unico fondatore”. Una componente di quest’azione fondatrice fu il fervore di opere che egli riuscì a suscitare attorno alle sue iniziative fino a creare un corpus di testi teatrali di notevole ampiezza e, in gran parte, ancora vivo. E non solo sugli autori locali egli esercitò questo stimolo, ma anche su altri, di ben diversa levatura. La terza formazione martogliana, quella in cui il Grasso era stato sostituito dal Marcellini, contava nel suo repertorio l’opera prima dell’allora ventiduenne Rosso di San Secondo, il dramma Madre, che fu rappresentato per la prima volta nell’inverno del 1908 a Milano. In seguito Rosso di San Secondo gli affidò, per fare l’altra […] e nessuno ignora quale funzione abbia avuto il Martoglio a persuadere definitivamente al teatro Luigi Pirandello. Alla compagnia martogliana Pirandello fornì Pensaci Giacomino, Liolà, Lumie di Sicilia, Il Berretto a Sonagli, La Morsa, La Patente, specificatamente per Turi Pandolfini scrisse La Giara e, in collaborazione con Martoglio, La Bilancia e Cappiddazzu paga tutto. E non soltanto il Martoglio scoprì dall’anonimato e lanciò quei grandi attori che tutti sanno, ma dette loro una impostazione, uno stile di recitazione con le sue puntuali regie, con una vera e propria scuola. Fu proprio questo che lo portò alla rottura con il Grasso, troppo impetuoso e sicuro di se per sottomettersi a tanta disciplina. Ma in altri casi egli riuscì a creare quasi dal nulla il grande attore, fornendogli gli strumenti tecnici indispensabili. All’inizio gli mancò una prima attrice da affiancare a Grasso e a Musco; la scoprì in una attricetta del San Carlino, ma, prima, volle sottoporla a un duro tirocinio, insegnandole a recitare, per sei mesi, tutti i giorni, a casa sua. Quell’attricetta era Marinella Bragaglia, che doveva diventare una stella di prima grandezza del nostro teatro, non solo dialettale. E quando la Bragaglia passò, appunto, al teatro in lingua, egli inventò un’altra grandissima attrice traendo Mimì Aguglia dall’oscurità del caffè-concerto. Del resto l’abilità di regia del Martoglio, il suo straordinario senso dello spettacolo e dell’evidenza scenica sono confermati dalla sua fama di regista cinematografico. A Catania per la produzione della Morgana Film, da lui voluta, egli girò Capitano Blanco, tratto dal suo dramma “ U Paliu”, La Castellana di Ninfa, Cavalleria Rusticana e, soprattutto, Sperduti nel buio dall’omonima opera di Roberto Bracco, che sono considerati, su piano mondiale, fra i primi prodotti del cinema d’arte, tanto che le maggiori storie del cinema, anche sovietiche, possono indicare, fra i precursori più efficaci di Eisenstein e di Pudvochin, il nostro Martoglio. E’ evidente che questa assoluta padronanza dell’immagine come mezzo espressivo, questa capacità di dare alle sue stesse commedie quella immediatezza di comunicazione, che ne assicurarono il successo. D’altra parte quelle commedie egli venne scrivendo in funzione di quel suo progetto di istituzionalizzazione di un teatro siciliano, per arricchire il repertorio delle sue compagnie, ma esse, necessariamente, dovevano proporsi, nelle sue stesse intenzioni, come esemplificazioni di quel modello ideale di teatro popolare, per il cui avvento egli intendeva impegnare tutte le energie disponibili, sue e degli altri. Ebbene, da un esame globale della sua produzione teatrale, non è difficile ricavare i canoni fondamentali che guidano la struttura di quelle opere e che assicurano loro quella capacità di immediata comunicazione di cui si parlava. Essi sono la pregnanza figurale del messaggio scenico e il suo porsi immediato come sintesi simbolica di un preciso modello culturale universalmente accettato. Il segno del messaggio può essere visivo – un quadro appeso a una parete, una lampada a olio accesa dinanzi a una immagine sacra o dinanzi alla fotografia di un defunto, un qualsiasi oggetto di scena, un certo tipo di arredamento o di abbigliamento, il gesto di un attore o un certo movimento scenico – oppure verbale – una precisa preferenza lessicale, una interiezione, un proverbio, un certo giuoco di parole: comunque è sempre tale da porsi subito al centro della comunicazione fra palcoscenico e platea come proiezione totale, concreta, interamente soddisfacente di un modo unanime di vedere, di sentire, di pensare. Ma, perché abbia questa efficacia, il simbolo non può essere fantasticamente o intellettualmente analogico, ma deve essere rievocato dalla esperienza più quotidiana degli spettatori, che ne scoprano, attraverso l’iperbole scenica, il valore semantico. Così si spiega l’ampiezza delle didascalie che accompagnano questi testi teatrali, l’insistenza con cui sono prescritti certi particolari della disposizione e dell’arredamento, specialmente quando si tratta di interni popolari e, in certi casi, la mimica, i movimenti, l’abbigliamento degli attori e spesso l’inflessione e l’intonazione delle voci. E, qualche volta, alle didascalie si aggiungono, all’inizio o alla fine dell’atto, avvertenze generali per gli attori e per chi metterà in scena la commedia. Tutto questo non è soltanto scrupolo di fedeltà realistica: è, appunto, impegno continuo di creare un’atmosfera, di suscitare una emozione attraverso un simbolo che, figuralmente, ma concretamente, richiami un preciso accostamento sentimentale, morale, ideologico. E’ ovvio che questa tecnica non è esclusiva delle commedie del Martoglio: si ritrova sempre in tutte le forme di teatro popolare e in tutte le forma sceniche vicine all’origine religiosa del teatro; è evidentissima nell’ opera dei pupi. Merito del Martoglio è averla individuata e averla proposta per un teatro che coscientemente volesse essere in perpetua intercomunicazione con una precisa realtà sociale e fosse, quindi, ma solo per questo, popolare e democratico. Rientra in questa ricerca di rappresentatività figurale la tecnica di presentare, sin dal loro primo ingresso, i personaggi – ma soprattutto quello centrale – nella loro condizione esistenziale più funzionale al dramma, tradotta subito in un gesto, in una parola, in una situazione di evidente efficacia emblematica. Il dramma “ Scuru” è tutto impostato sulla cecità di zu Masi Latinu, sulla sua serena, quasi gioconda, accettazione della minorazione. Egli è un patriarca, che ha superato la doppia sventura della perdita della moglie e poi della vista, nel sentirsi al centro dell’affetto, delle cure, della protezione dei suoi. Egli entra in scena nel momento in cui i figli, i loro amici, i vicini, fra un intrecciarsi ingenuo di frizzi, di gioconda solarità, di schermaglie amorose, giocano agli indovinelli. Nel momento in cui egli appare, uno dei giovani ha proposto questo indovinello:
“ Dui finestri ben guardati
Stannu aperti li jurnati.
Ma, vinennu, poi, la notti,
s’appuntiddunu li porti”
Sono, evidentemente, gli occhi. Ma i presenti non l’hanno capito e invitano lo ‘zu Masi, che ha chiesto di partecipare al giuoco, di dare la risposta. Egli, appena gli ripetono l’indovinello esclama: “ Haju caputu, va, non è cosa mia !” E, dinanzi all’imbarazzo, alla costernazione degli altri, dichiara:
“ Chi vi criditi, ca mi sentu infelici ? … – No, affattu ! … ‘nt’è primi, viditi, si … ‘nt’è primi mi parsi tuttu ‘u munnu finutu … ma poi a pocu a pocu vinni la rassegnazioni … mi trasiu ‘nt’ò cori comun a ducizza … chi sacciu, non v’u sacciu diri … ma ‘u fattu è chiddu ca m’hannu passatu cinc’anni comu fussiru cincu jorna … Quasi felici, va ! … Nuatri orvi, amici mei, avemu certi soddisfazioni e certi piaciri, ca vuatri ccu ‘a vista mancu vi l’immaginati ! … Chiddu di essiri prutetti di tutti, comu fussimu turnati picciriddi … chiddu di non vidiri tanti cosi laidi di ‘stu munnazzu tradituri”
Così, di colpo, all’allegria della scena precedente si sostituisce una intensa commozione, una atmosfera di tenerezza, la tensione di una situazione fragile, delicatissima, indifesa, che immediatamente fissano il personaggio e il tema centrale del dramma. In questo quadro di sentimenti e di emotività popolare che è, indubbiamente, anche, l’opera martogliana, la cecità è uno dei motivi di pietà maggiormente ricorrenti: basti pensare al personaggio di Miciu in Nica. Ma il motivo dominante di Scuru è l’intensità, l’assoluta dedizione dei sentimenti familiari, che è uno dei pilastri della scala di valori tradizionali siciliani. Zu Masi afferma di non soffrire della sua cecità perché vede attraverso gli occhi del figlio, in lui si specchia, nella sua laboriosità, nella sua stessa prestanza fisica. Egli, proclama, è la sua bandiera, è la vista degli occhi suoi. I figli, dal canto loro, vivono in funzione del padre e della sua infermità e Rosa sacrifica il suo amore per Decu per non abbandonare il padre e, poi, anche il fratello, divenuto, a sua volta, cieco di guerra. Decu, d’altra parte, anche se innamoratissimo di lei, accetta il suo sacrificio e compie il proprio rinunziando a lei, perché non vuole costringere la madre a vivere in quella casa tristissima. Cosi i sentimenti familiari diventano dei tabù sacri: a essi si deve dedizione assoluta, che non ammette compromessi, anche a costo di sacrificare irrazionalmente se stessi e gli altri. Ma il motivo più originale di Scuru è la solidarietà corale dei popolani che ne sono protagonisti, la fiducia e il rispetto reciproci, la semplicità antica dei loro svaghi. Nelle prime scene tutto il vicinato, vecchi e giovani, giocano agli indovinelli, poi improvvisano una rustica contradanza. E anche qui questa spontanea, gioiosa fedeltà alla tradizione trova la sua concretezza figurale nell’orchestra di carta velina, di pettine e di quartara con cui zu Masi e i suoi vecchi amici vogliono accompagnare, “all’usu anticu”, il ballo. Tutti vivono intensamente le vicende altrui in una solidarietà generosa e corale. La partenza di Nino per il fronte prima, poi l’annunzio festoso del suo ritorno, la dolorosa scoperta della sua sventura, il fermo proposito di nasconderla a zu Masi sono tutti vissuti con partecipazione unanime, sentita come “ doviri d’amicizia e di vicinatu”.
“ Signuri mei – proclama zu Paulu il più vecchio degli amici di zu Masi – chista è casa ca non si po’ lassiri un jornu sula, oh ! …Un pocu per unu, tutti l’amici e vicini, nn’ avemu a sacrificare ! …“ E una delle donne presenti: “Con tuttu lu cori, zu Paulu !… Si soli diri: carciri, malatii e nicissitati vi provanu lu cori di l’amici…“ . E’, certamente, una struttura culturale primitiva, tradizionalista, conservatrice. E non mi riferisco tanto alla soggezione di questi popolani alle classi dominanti, alla accettazione, interamente rassegnata, della loro condizione e della loro incolmabilità delle differenze sociali, alla esaltazione del paternalismo autoritario con cui, in “ U’ paliu”, capitan Blanco esercita la sua funzione di sindaco, quanto a tutto ciò che si riferisce, per esempio, ai modelli dell’onore, dell’amore, dei rapporti sessuali. La verginità femminile è tradizionalmente, in questa sfera, uno dei tabù più qualificanti. L’iniziazione di una donna all’amore non è l’avvento di una nuova fase più matura, più piena di vita, una esperienza che può essere ricca di sviluppi anche spiritualmente fecondi, anzi è una conclusione, una fine, una caduta definitiva, al di la della quale non c’è che il disfacimento morale e anche fisico. Alla idealizzazione della fanciulla in quanto tale corrisponde un supremo disprezzo quando ella abbia conosciuto l’amore. Zu Masi, sempre, in Scuru, spiega alla figlia Rosa:
“ Dimmi ‘na cosa: l’ha vistu mai, ‘n campagna, di bon matinu, ‘ddi fogghi d’arvulu, puliti puliti, chini d’acquazzina ? … Dicu, figghia ‘na stizza di ‘ssa rugiata ca spicchia, a lu primu suli, supra ‘na fogghia pulita … Chi ti pari ? … A chi l’assimigghi ? …
Risponde Rosa
A un diamanti … A ‘na perla
Masi
Ora ‘ssa stizza, ca pari ‘na perla, tu falla cadiri ‘n terra … Chi ti diventa ?
Fangu
Masi
Biniditta la matri ca ti fici ! … Ora, vidi, figghia mia, d’accussì è la femmina; … perla prima di cadiri, fangu doppu ch’è caduta.
Nel dramma Nica Janu dice che ha voluto bene ad Angelina “ Chiù di ‘na soru … chiù di Maria Santissima. E ‘ssu buttuneddu di Rosa mi pareva ca l’aveva a cògghiri iu, e mi lu scrisceva ccu l’occhi notti e jiornu “. E poi, alludendo al fugace incontro amoroso di Angilina con il seduttore don Luigino: “ ‘ssa Rosa si spampinau, senza ca ju nni sapissi nenti”. Per l’uomo cogliere la verginità di una donna, soprattutto se amata, è aspirazione suprema, comunque piacere inarrivabile. Ma il conseguente matrimonio è il pagamento di tale piacere, l’espiazione doverosa per quanto sgradevole, anche nel caso che entrambi ne riluttino, anche nel caso che esso non possa essere che fonte di infelicità. Janu ama, adora Angilina e tuttavia impone con le minacce, a Luigino, di sposarla, perché, come dice, la posizione sia regolata:
“ Ju non vogghiu nenti. Ppi mia passau ‘a stati e vinni ‘u ‘nvernu, ‘nta ‘na vota vitti lu persicu appisu all’arvulu, jancu, russu e villutatu … lu criscivi ccu l’occhi … ‘na bedda matina truvavi l’ossu spurpatu ! Pacenzia ! Ma cu si mangiau ‘a purpa s’ha mangiari puru l’ossu, vasinnò si perdi ‘u nomu di Janu Carrà !”.
Su situazioni simili, o riconducibili al medesimo schema di valori, sono imperniati gli altri lavori drammatici, da Voculanzicula a Taddarita, a Riutura. E il carattere conservatore di questo mondo permane anche quando il Martoglio adotta i toni, per lui più congeniali, dell’umorismo e della franca comicità, come in San Giuvanni Decollatu o ne L’aria del continente. Il “ Continente” e tutto ciò che da esso proviene sono guardati da questa società ora con stupore, ammirazione, complesso di inferiorità, ora con diffidenza, sospetto, disapprovazione morale. La verità è che, nell’immaginazione del siciliano – almeno fino a qualche decennio fa – in realtà il continente era un mito, la proiezione delle sue frustrazioni e delle sue repressioni. La indeterminatezza stessa della indicazione, il Continente, contribuisce ad allontanarlo smisuratamente e nella dimensione geografica e nella dimensione umana. Alla lievitazione del mito contribuisce la coscienza inquieta, fatta di segreta vergogna e di ombrosa suscettibilità, che il siciliano ha della propria inferiorità sociale sul piano della cultura, dell’efficienza, dell’igiene. A fronte della risibile scienza di don Marianu Birritta, il medico condotto, l’ordine, l’organizzazione, la sicurezza dei medici e delle cliniche di Roma attingono, nella rievocazione del protagonista della commedia, i vertici della perfezione e della infallibilità. Fra le sue abitudini nuove, di cui don Cola Duscio si vanta come di una liberazione, ampio posto hanno i bagni, le docce, i massaggi, la cura e l’eleganza fisica e del vestire. Sono tutte cose che la cultura siciliana tradizionale ritiene superflue e frivole in confronto alla serietà, alla concreta responsabilità della vita che può e deve appagarsi, per esempio, quando si tratta di gente seria e posata, di indumenti semplici e funzionali come lo scialle o la scuzzetta. Don Cola ora rifiuta decisamente la scuzzetta, anche se si affretta a chiudere tutte le finestre per non “ arrifridarsi”; il cognato lo prende in giro per questo, ma presto si toglierà anch’egli il berretto, lo nasconderà e, nel terz’atto farà a gara con don Cola per eleganza all’uso continentale: quelle sciccherie sono i simboli liberatori di una vita più ariosa, più indulgente, meno severa e, soprattutto, meno repressiva. Carattere liberatorio ha anche la libertà di parola:
“ E lassativi parrari, lassatici sciogghiri lo scilinguagnolo alle ragazze, sveltitele, scaltritele, in modo ca quannu si maritano poi, sannu chiddu c’hannu a fari ! … “
Liberazione dalle ipocrisie, dalle inibizioni, dal senso oscuro di colpa che non solo impediscono alle ragazze di ascoltare in pubblico quello che già fanno, ma che indicano come scandaloso fare apertamente ciò che gli altri fanno nascostamente nel complice e pudico silenzio generale, che è socialmente riprovevole violare, come ora fa – finalmente ! – don Cola Duscio. Ma è – soprattutto -, il Continente, nella dilatazione immaginaria della spregiudicatezza dei costumi, la dimora ideale della liberazione dalle inibizioni, dalle repressioni, dai tabù sessuali. Simboli sono ora le donne, affascinanti, eleganti, seduttrici, sempre disponibili. Ma, appunto perché liberazione degli istinti, reazione al secolare senso di colpa, ribellione alla moralistica regressività sociale, evasione dalla serietà e dalla responsabilità della vita, il vagheggiamento del mito assume i colori del rimorso e del peccato e i suoi simboli, le donne, tornano alla atavica identificazione col peccato: sono subdole, ingannatrici, da guardare con diffidenza e sospetto, diverse dalle vere donne. Don Cola Duscio è traumatizzato non tanto dalla notizia dei tradimenti di Milla, quanto dall’informazione che è una siciliana: fosse stata continentale, fatto normale, il suo onore sarebbe rimasto estraneo; ma è una siciliana, egli deve lavare l’onta, deve compromettersi. E rinunzia alla vendetta solo quando il delegato e la sorella gli hanno promesso che non diranno a nessuno che Milla è di Caropepe. Ma il rimorso del continente opera in don Cola già dal primo atto, malgrado la sua sicurezza, il suo ostentato disprezzo per tutto ciò che è siciliano. Egli già si sente in colpa, invoca appoggio e comprensione dai suoi stessi familiari, si aggrappa alla fine disperatamente a una spiegazione, a un alibi morale che lo giustifichi a sé e a loro. E’ stata l’operazione, che lo ha cambiato, totalmente. Sull’operazione egli insiste quando si scopre che egli è tornato da Roma con Milla.
“Mi vutaru dintra e fora, capiti ? … Mi vutaru sutta e supira …”.
L’operazione è stata responsabile di quel rivolgimento, anche mentale, che egli incosciamente sente come un tradimento. Ma l’operazione, purtroppo, era necessaria: “ Perciò – egli ripete – era megghiu ca mureva ? … A ‘st’ura fussi mortu !. “ Questo è il significato della scena, resa soprattutto famosa da Musco, in cui egli, nel finale del primo atto, scoperti tutti gli altarini, dinanzi alla indignazione della sorella e del cognato, rievoca a lungo, con i gesti, l’operazione, ne mima i momenti più emozionanti e drammatici e conclude, quasi con malinconia:
“ E ora lassatimi viviri a modu miu ! … “
E non per nulla, quando nelle ultime battute della commedia egli si sarà liberato di Milla, quando avrà ripreso in mano il marruggio, in testa la scuzzetta e in bocca la pipa di coccio, quando si sarà, cioè, liberato dal mito e avrà riacquistato la sua sicilianità, cioè la norma e la costrizione contro la libertà dell’immaginazione e dei sensi, gli tornerà immediatamente l’attacco di appendicite. E tuttavia il ritorno alle origini sarà sentito dal protagonista, e quindi dal suo autore, ma, soprattutto, dal pubblico, come un riscatto, sarà sentito, a sua volta, come una liberazione da un comportamento alienante, da un complesso di inferiorità, per la riaffermazione della solidità di un sistema di valori e della validità di una cultura. Don Cola smetterà improvvisamente il suo artificioso tradurre in lingua dal siciliano, il suo parlare per frasi fatte, il suo sfoggio di interiezioni romanzesche ( managgia a li cani, a li pescetti ) e tornerà alla autenticità del dialetto. E, dinanzi alla prospettiva di una nuova operazione, ora, “ si m’hannu a spaccari n’atra vota, mi fazzu spaccari cca , … Mi fazzu spaccari cca ! … “ . Struttura culturale, dunque, come appare da questi saggi frettolosi, tradizionale e conservatrive, ma che rispecchiava una precisa realtà ambientale, di cui ancora sopravvivono, persistenti, le tracce. Da questa fedeltà il teatro siciliano, nella forma martogliana, ha ricavato una validità che dura ormai da tre quarti di secolo. Oggi, certo, quella struttura culturale è in crisi, quei contenuti in via di superamento, altre sono la problematica e la sensibilità dell’ambiente siciliano, diversi i drammi e i miti. Ma l’aspirazione del Martoglio a un’arte in continua, vivente, scambievole osmosi con la realtà storica e ambientale del proprio tempo, colta nella più immediata genuinità del sistema di miti popolari, e la sua indicazione del teatro come il canale più vitale di tale comunicazione sono valide più che mai. E, chiusa la stagione degli spericolati sperimentalismi, potrebbe essere anche una via di salvezza – che già Gramsci preconizzava – del teatro stesso.