40 anni fa l’assassinio di John Lennon

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“Lo sai che cosa hai fatto?”. “Sì, ho appena sparato a John Lennon”. Fu questa la fredda risposta che Mark David Chapman diede al custode del Dakota Building dopo aver sparato quattro colpi alla schiena di John Lennon, davanti al portone del lussuoso palazzo in cui risiedeva, sulla 72ª strada, nell’Upper West Side di New York, 40 anni fa. Era l’8 dicembre 1980 e, raccontano le cronache dell’epoca, mentre Lennon moriva tra le braccia della moglie, l’assassino non scappò subito ma si mise a leggere ‘Il giovane Holden’.

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La ricostruzione di quell’omicidio è stata oggetto di film e libri e di infinite ipotesi di complotto, comprese alcune che vedevano la Cia dietro l’uccisione. Le teorie poggiavano sul fatto che l’Fbi effettivamente spiava Lennon e la moglie per le loro simpatie di sinistra e il loro impegno antimilitarista e contro la guerra del Vietnam. E d’altronde Lennon non era solo l’ex Beatle, fondatore di un gruppo che aveva segnato un’epoca nella musica, nel costume, nella moda e nella pop art, incidendo 186 brani quasi tutti di successo, ma l’artista e attivista che nei poco più di dieci anni da solista, dal 1969 (anche se i Beatles si sciolsero ne ’70), aveva continuato a catalizzare l’attenzione del mondo con brani come ‘Give Peace a Chance’ e ‘Imagine’, diventati inni internazionali e immortali del movimento pacifista. Brani non a caso inseriti, come molti titoli dei Beatles, in tutte le più prestigiose liste di pietre miliari della storia della musica. Fino all’ultimo album, ‘Double Fantasy’, che segnava il suo rientro sulla scena discografica dopo circa 5 anni di isolamento dorato newyorkese e che venne pubblicato nel novembre del 1980, poche settimane prima della morte, diventando anche la ‘scusa’ con cui il suo assassino gli si avvicinò.

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La sera dell’8 dicembre, quando Lennon uscì di casa, Chapman era già lì, gli strinse la mano e si fece firmare un autografo proprio sulla copertina di ‘Double Fantasy’. La scena fu anche immortalata dal fotografo Paul Goresh. Ma la missione di Chapman non si era concluse: l’assassino attese Lennon sotto al palazzo per circa quattro ore. E alle 22.52, vedendo il musicista rientrare insieme alla moglie, gli sparò contro cinque colpi di pistola: quattro andarono lo colpirono alla schiena e uno lo trapassò all’altezza dell’aorta. La situazione apparì talmente grave agli agenti che arrivarono sul luogo del delitto, da caricarlo sull’auto della polizia per non aspettare l’ambulanza. Lennon fu portato al vicino Roosevelt Hospital ma fu dichiarato morto alle 23.07.

Chapman fu arrestato senza opporre resistenza. E si capì abbastanza presto, nonostante i complottisti, che il suo era stato il gesto di un folle. “Mi sembrò l’unico modo per liberarmi dalla depressione cosmica che mi avvolgeva. Ero un nulla totale e il mio unico modo per diventare qualcuno era uccidere l’uomo più famoso del mondo, Lennon”, spiegò in una celebre intervista.

“A otto anni ammiravo già i Beatles, come tanti altri ragazzini. Ma non ho mai pensato che Lennon fosse mio padre. E si sbaglia anche chi sostiene che mi credevo ‘il vero Lennon’ o che lo amavo alla follia – spiegò ancora – Mi sentivo tradito, ma a un livello puramente idealistico. La cosa che mi faceva imbestialire di più era che lui avesse sfondato, mentre io no. Eravamo come due treni che correvano l’uno contro l’altro sullo stesso binario. Il suo ‘tutto’ e il mio ‘nulla’ hanno finito per scontrarsi frontalmente. Nella cieca rabbia e depressione di allora, quella era l’unica via d’uscita. L’unico modo per vedere la luce alla fine del tunnel era ucciderlo”.

Chapman fu accusato di omicidio di secondo grado (secondo la legge statunitense) e, dichiaratosi colpevole, fu condannato alla reclusione da un minimo di 20 anni al massimo dell’ergastolo. Nel 2000, scontato il minimo della pena, fece richiesta di scarcerazione sulla parola, che gli venne rifiutata. Chapman ha trascorso i primi 30 anni di reclusione nel carcere di Attica e nel 2012 è stato trasferito in quello di Wende, sempre nello Stato di New York. Da allora ha provato più volte a chiedere la libertà condizionata, senza successo.

L’ultima, l’undicesima volta, questa estate. Ma ancora una volta gli è stata negata, nel settembre scorso, dopo un’udienza tenutasi ad agosto, in cui Chapman, ha chiesto scusa per la prima volta a Yoko Ono. Anche in questa occasione Chapman ha detto di aver ucciso la star, allora 40enne, per “gloria”. Ha ammesso di rendersi conto che si sarebbe meritato la pena di morte. L’uomo ha aggiunto di pensare all’omicidio di Lennon (che ha definito “quell’atto spregevole”) tutto il tempo e di aver accettato l’idea di dover passare il resto della sua vita in prigione. “Voglio solo ribadire che mi dispiace per il mio crimine”, ha detto Chapman al Comitato per la libertà vigilata del Wende Correctional Facility di New York. “Non ho scuse. L’ho fatto per la gloria personale”. Chapman ha ribadito più volte di aver ucciso Lennon solo perché “era molto famoso”. Poi parlando di Yoko Ono ha voluto sottolineare: “Mi dispiace per il dolore che le ho causato. Ci penso sempre”.

Nel 2015, la vedova di Lennon – che ha contestato ciascuno dei tentativi di concedere la libertà condizionale a Chapman – aveva detto alla stampa di vivere nel timore che l’uomo venisse rilasciato. “L’ha fatto una volta, potrebbe farlo di nuovo, a qualcun altro. Potrei essere io, potrebbe essere Sean (suo figlio, ndr.), potrebbe essere chiunque”, disse.

Il motivo per cui la libertà vigilata è stata nuovamente negata è che il rilascio di Chapman viene considerato “incompatibile con il benessere della società”. In particolare, il Dipartimento di correzione dello Stato di New York ha dichiarato di aver trovato inquietante l’affermazione di Chapman secondo cui “l’infamia ti porta gloria”. Il consiglio ha anche sottolineato come “le azioni egoistiche di Chapman hanno rubato la possibilità ai futuri fan di sperimentare le parole di ispirazione che questo artista ha fornito a milioni di persone”. “Il suo atto violento – ha aggiunto il dipartimento – ha causato devastazione non solo alla famiglia e agli ex membri della band, ma al mondo”. E come si può dare loro torto se ‘Imagine’ è stato uno dei brani più suonati anche dal ‘movimento dei balconi’ durante il primo lockdown da coronavirus la scorsa primavera, a quattro decenni dalla morte dell’autore del brano. (AdnKronos)

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