Di Salvo Barbagallo
Ripercorrere con la memoria 50 anni della propria esistenza professionale non è impresa facile, neanche per un giornalista di provata esperienza. Salvo Bella, giornalista della prima ora, ha cercato di farlo con il suo ultimo libro, “Nera” (edizioni GRUPPO edicom): riesce nell’intento utilizzando l’esperienza dello scrivere, tracciando sapientemente alcune tappe di un cammino che si è protratto (non concluso) per mezzo secolo.
Salvo Bella attinge al suo prezioso patrimonio, la memoria: fin troppi gli avvenimenti di “cronaca nera” che ha descritto nei lunghi anni di un “mestiere” difficile, vissuto fra tanti ostacoli posti, a volte, anche dagli editori degli stessi giornali per i quali ha lavorato. In questo “Nera” – lo diciamo subito – non c’è la crudezza d’espressione (e non poteva essere diversamente) che ha caratterizzato le tante inchieste sul crimine organizzato in una città come Catania e in anni (Settanta/Ottanta, soprattutto) dove certi termini (come “mafia”) costituivano un tabù. Con “crudezza” il giornalista (cronista professionista) descriveva una realtà che in tanti, in troppi volevano ignorare. Come se non esistesse.
Nel libro tanti episodi (non solo siciliani), uno dietro l’altro ma “a volo d’uccello”: in questo caso con una verve tecnica più da scrittore che da “cronista”. Il risultato è positivo perché le 376 pagine che compongono il volume scorrono senza stancare, e sono molto intriganti.
In verità chi ha avuto modo di stare vicino a Salvo Bella negli anni di fuoco della “Catania non mafiosa” potrebbe quasi non riconoscere nella narrazione il giornalista senza paura che, fra un morto ammazzato e l’altro, scavava senza timore nei meandri dell’alta delinquenza che imperversava nel capoluogo etneo: il linguaggio in “Nera” è più distaccato nella descrizione degli eventi. Non è un fattore negativo. Anzi. Qui si ritrova un Salvo Bella sicuramente più sereno, forse più solido: un professionista che non rinuncia a dire le cose come stanno, che non tralascia nulla e nulla lascia al caso, puntualizzando senza enfasi i “fatti” per quello che sono.
A nostro avviso Salvo Bella è stato l’ultimo “vero” cronista di “nera” che ha operato a Catania, in Sicilia. Dopo, tutto è cambiato, considerato anche la futile circostanza che c’era ben poco da andare a scoprire, non c’era più possibilità di celare ciò che per decenni era stato occultato, e parlare di “mafia” (e poi di “antimafia”) è diventata una sorta di moda, utile solo a chi si è voluto mettere in mostra.
Dunque, “Nera”. Salvo Bella propone in questo libro vicende dimenticate: lo fa con l’ottica misurata di chi le vicende le ha viste da vicino. Un “testimone”, pertanto, che parla di “storie” che hanno costellato la vita della società nostrana. Un testimone schietto: “… il cronista – che non è il passacarte degli inquirenti – al più presto possibile ricostruisce i fatti accertandoli personalmente, nel rispetto della dignità delle persone e nell’interesse della giustizia”, scrive Salvo Bella da qualche parte, in questo libro. Ed è questo il suo ritratto, che ha identificato costantemente nel tempo il suo modo di pensare e scrivere. Quel “modo” non gradito in alto e in basso dei poteri noti e ignoti che, alla fine, lo hanno costretto a lasciare la trincea e abbandonare l’Isola.
Questo “Nera” vale la pena leggerlo.
Sarebbe interessante porsi all’esterno di sé, e descrivere il lavoro del “cronista di nera”, ma già riportare all’oggi episodi trascorsi è tanto. Certo oggi il modo di fare informazione è mutato. Non si può dare torto a Salvo Bella quando – al solito, senza peli sulla lingua – afferma che “… si è allargato il campo delle fonti potenziali per i cronisti, ma quelli che non si limitano a riportare il contenuto dei comunicati e delle conferenze stampa sono sempre meno… La cronaca nera continua ad appassionare il pubblico, ma è divenuta piatta e uniforme nella maggior parte dei giornali…”. Ma c’è da dire anche che è cambiato il pubblico, cioè il cosiddetto “utente” dell’informazione.
A conclusione il “Nera” di Salvo Bella può essere utile per rammentare che il “mestiere” di giornalista non si improvvisa, ma che la responsabilità nel “valutare” l’informazione è anche di chi la riceve.