L’esempio del sacrificio politico di Mazzini nel momento di realizzare l’unità d’Italia

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Di Santi Maria Randazzo

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La pluridecennale battaglia politica che Mazzini aveva condotto per affermare uno stato repubblicano e non monarchico impattò nel 1860 con una realtà che vedeva ormai prossima la battaglia risolutiva per realizzare l’unità d’Italia, che Giuseppe Garibaldi affermava di voler condurre in prima persona quella battaglia in nome del Re Vittorio Emanuele. In quel momento Mazzini capì che il contributo che poteva essere dato dal suo movimento politico poteva essere determinante per realizzare l’unità d’Italia e decise, pur mettendo in rilievo i suoi distinguo politici, di voler scendere in campo assieme a Garibaldi per combattere assieme quella decisiva battaglia. Dopo aver ottenuto la vittoria si scatenò verso i Mazziniani una campagna di diffamazione politica che evidenziamo in un confronto dialettico che Toffolo, uno degli amici più fidati di Mazzini ebbe con lui:

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 “ Sono ormai giornaliere le calunnie che da parte di Cavour e dei suoi amici vengono alimentate verso noi Repubblicani e verso Mazzini e verso tutto il Movimento Mazziniano – disse Toffolo rivolgendosi a Mazzini –  E’ chiara la finalità di queste menzogne che vengono dette al popolo – e continuò  – “ Vogliono impedire che i sentimenti di riconoscenza e di ammirazione che il popolo italiano ha maturato verso il movimento repubblicano mazziniano, per ciò che per tanti anni ha saputo portare avanti con coerenza e determinazione per il progetto di unificazione nazionale, non si trasformi in consenso politico verso Mazzini  e verso l’idea repubblicana che ha sostenuto la formazione del nuovo Stato Italiano; è necessario che noi Repubblicani chiariamo il nostro pensiero al popolo e che voi – disse rivolto a Mazzini –  mandiate un messaggio che tutti possano leggere”. Soppesato quanto scritto da Toffolo, Mazzini rispose:

Ormai dobbiamo essere coscienti come sia chiaro che Garibaldi ha accettato di combattere per l’unità di uno Stato Italiano che sia retto come monarchia da Vittorio Emanuele e non come Repubblica; e che questa sua posizione permette oggi a Cavour di additarci come sobillatori dell’ordine costituito. Ma –  disse Mazzini – non possiamo rimanere in silenzio, perché ciò equivarrebbe ad ammettere che quanto dicono Cavour e i suoi alleati sia vero e metterebbe in silenzio quanto i Repubblicani hanno fatto per l’Italia. “.

Rivoltosi poi a Toffolo, lo invitò a raccogliere per iscritto quanto stava per dire e che era necessario che gli Italiani sapessero: quindi gli dettò:

La diffidenza cieca, come la cieca fiducia è morte alle grandi imprese. I maneggiatori politici del moto italiano peccano in oggi della prima e vi aggiungono l’ingratitudine; il popolo d’Italia pecca della seconda. Della necessità che il popolo d’Italia non segua passivamente servile l’ispirazione che scende dalle sfere governative, ma senta la vita iniziatrice che ha in se, e la svegli e provveda più che non fa, con l’opere proprie, alle proprie sorti, ho parlato sovente, e riparlerò. Parlo oggi per conto mio e dé miei amici repubblicani, della diffidenza sistematica, che perseguita di calunnie e di stolti sospetti essi e me. Ne parlo non perch’io creda debito nostro il giustificarci o difenderci con gli uomini che distendono quelle calunnie o affettano di nutrire questi sospetti: nei pià tra essi calunnie e diffidenze non sono sincere, ma solamente calcolo basso politico e codarda guerra d’uomini meschini contro uomini che paventano, a torto, rivali possibili sul campo dov’essi mietono; però non li stimo. Ne parlo pei molti che credono senza appurare, e sperdono così la speranza d’una concordia che nell’intimo cuore desiderano; pei molti che ineducati a scegliere tra le cose messe loro innanzi, travedono pericoli ove non sono e credono, ingannati, non colpevoli, salvare il paese vigilando sospettosi su noi ed allontanandoci da un campo che aprimmo noi primi in Italia. Davanti al popolo non v’è dignità offesa che comandi il silenzio. Giovammo e questo lo confessano gli stessi avversari, alla causa del suo avvenire. Vogliamo giovarla ancora, tentarlo almeno, e per questo bisogna intenderci. Agli accusatori sistematici vorrei ricordare soltanto che le ingiuste diffidenze generano ingiuste ire, traviano l’opinione Europea su le cose nostre, scemano le forze della Nazione, e cacciano i germi di quel sistema che contaminò sessantasette anni addietro la Rivoluzione  francese e finì per affogarla nel sangue. Da quali fatti muovono i sospetti che oggi ancora si accumulano contro i Repubblicani ? Per quanto io cerchi, non ne trovo uno solo che non sia un’assurda calunnia smentita dieci volte da prove documentate. Ebbe luogo, in un sol punto d’Italia, un solo tentativo di sommossa repubblicana ? Fu trovata, fu letta, negli ultimi due anni, una sola linea scritta pubblicamente o privatamente da noi, dagli uomini che più o meno rappresentano il principio del Partito, che accenni a repubblica ? Fu mai promossa da noi, dal primo svolgersi del moto d’Italia, la quistione di forma di istituzioni politiche ? No; e mi smentisca coi fatti chi può. Prima della pace di Villafranca, parecchi tra noi protestarono contro il commettersi dé nostri fati alle armi straniere e ad armi dispotiche: sapevano d’antico che nessuna Unità Nazionale s’era fondata a quel modo; e la subita pace, e lo smembramento di Nizza  e Savoia vennero poi a giustificarne l’antiveggenza. Dopo la pace di Villafranca, appena l’emancipazione Italiana rimase opera di menti e braccia italiane, anche quei che non avevano fatto se non astenersi, senza badare alla bandiera che padroneggiava il moto, s’affrettarono a unirsi. Il programma monarchico di Garibaldi u il loro. Le fila di Garibaldi son piene di repubblicani. Essi pugnarono, vinsero, morirono lietamente sotto di lui. Né prima né dopo l’infausta pace uscì dalle loro labbra altro grido che quello della Unità, di quella Unità ala quale i loro tentativi, i loro scritti, le loro associazioni, i loro martirii, avevano educata l’Italia. Ovunque fu pericolo onorato da corrersi per promuoverla, là furono. La sola sfera nella quale i loro nomi non si trovano o si trovano più che rari è quella degl’impieghi lucrosi. Sdegnati, calunniati, respinsero le calunnie senza una parola che riconducesse l’antica quistione sul campo. Perseguitati, oggi scrissero, e il di dopo giovarono, come fu loro dato, alla causa della Patria e dell’Unità, i più tra loro promossero, stimandola giovevole, l’annessione combattuta delle Provincie del centro. Taluni si tennero, in Toscana segnatamente, a contatto col governo per rassicurarlo e appoggiarne più validamente le mosse quando tendessero all’Unità. Io che scrivo dichiarai sull’onore e pubblicamente, che se mai nuovi smembramenti di terra Italiana, o il rifiuto deliberato dell’Unità da parte dei Reggitori ci riducesse, disperati d’altre vie, alla nostra vecchia bandiera, noi lo annunzieremmo anzi tratto con la stampa agli avversari.

Può un partito dar pegni più solenni di questi ? Può spingersi più oltre, per amore della concordia, l’abnegazione ? Può la riverenza alla sovranità dell’opinione Nazionale esigere altro da noi ? Il popolo d’Italia lasciata alle proprie aspirazioni, non traviato da calunnie; risponderebbe: non può. I raggiratori che strisciano intorno alla piramide del potere vorrebbero più. Discreditati di fede e veneratori materialisti dell’opportunità e della forza, essi vorrebbero rapirci la nostra. Non basta ad essi che da noi si chini riverenti il capo alla sovranità dell’opinione dei più; vorrebbero che dichiarando di aver errato nel passato, noi ci dicessimo credenti nella fede monarchica. Vorrebbero che l’anime nostre si prostituissero a manifestazioni intolleranti d’un entusiasmo non sentito. Vorrebbero che non fossimo accettatori ma propugnatori della dottrina che in oggi domina. Non lo vogliamo ne lo possiamo. La nostra è fede; possiamo tacerla per un tempo, rinunziare ad ogni tentativo d’attuarla; non rinnegarla e dirla falsa nell’avvenire. Né ribelli, né apostati: in queste parole si compendia la nostra condizione dell’oggi. Non possiamo andar d’una linea più in là. Essere cittadini non significa per noi cessare di essere uomini. Cittadini onesti e leali, accettiamo, purchè guidi all’unità della Patria, la Monarchia dal consenso dei più non tentiamo di sostituire alla sua bandiera, la bandiera repubblicana. Che volete di più ? abolire la coscienza ? Siate allora inquisitori e tiranni; non vi fregiate del santo nome di libertà. La libertà esige la coscienza della libertà. Volete servi non liberi alleati all’impresa ? Raccoglierete una menzogna di libertà e nuova servitù poco dopo. Preferireste averci cortigiani, ipocriti e gesuitanti, all’averci cooperatori leali e salvo il pudore dell’anima, salva la dignità d’uomini, in noi ? Qual pegno avrete del nostro non tradirvi domani ? Movendo all’emancipazione delle Marche e dell’Umbria, emancipazione da voi dichiarata inopportuna e pericolosa cinque giorni prima di compirla con l’armi vostre, noi inalzavamo la bandiera dei tre colori d’Italia senza lo stemma Sabaudo. Con qual diritto avremmo noi pochi iniziatori e semplici cittadini, detto alle popolazioni alle quali imprendevamo di portare la libertà: noi vi aiutiamo a patto di padroneggiarvi ? Non dovevamo aspettare che la volontà dei nostri fratelli, come altrove si dichiarasse ? Non rimase la bandiera pura d’ogni stemma in Toscana prima che il voto popolare a favore dell’annessione si rivelasse ? Innalzarono altra bandiera che l’Italiana gl’insorti della Sicilia, quando per sei settimane Rosolino Pilo, e i compagni di lui tennero vivo, aspettando Garibaldi, il combattimento ? Perché voler noi, noi soli repubblicani, usurpatori della Sovranità del popolo ? Non bastava a voi la promessa che il nostro grido repubblicano avrebbe taciuto ? Che avremmo accettato il vostro vessillo dal primo Municipio che l’avrebbe, e non v’era dubbio, innalzato ? Perché pretendere che ci mostriamo in sembianze d’iniziatori monarchici ?

Perché l’Italia impari a rigenerarsi convincendosi che non v’è partito entro i suoi confini, capace di non vendere ne calpestare la propria fede e non di meno capace di non vendere o calpestare la propria fede e non dimeno capace di sacrificarne la realizzazione immediata all’opinione dei concittadini e all’Unità della Patria ? Scorrete le fila dell’esercito di Garibaldi. Là, tra quei forti che numerano i giorni con le battaglie, voi trovate il repubblicano a fianco dell’uomo della monarchia.  Nessuno diffida del compagno; nessuno sospetto ch’egli covi un pensiero d’insidia nell’anima. Perché non è lo stesso nei ranghi della vita civile ? Perché non potremo parlare di Patria e Unità senza che voi diciate: intendono parlar di Repubblica ? Né Apostati , n’è ribelli. Noi serbando fede al nostro ideale, ci serberemo il diritto di non apporre il nome nostro in calce d’inni monarchici; di non dire oggi ai nosti concittadini: vogliamo che siate Regi e non altro; di esprimere pacificamente, conquistata l’Unità della Patria, davanti a Paese le nostre credenze; di astenerci dagl’Ufficii che altri si contenderanno di ripigliare taluni tra noi la via dell’esiglio. Oggi chiediamo di essere ammessi, senza calunnie, senza sospetti villani, senza interpretazioni maligne, date ad ogni nostra parola, senza testimonianze d’ingratitudine che a noi, sicuri nella coscienza, importano poco, ma che disonorano la nostra patria, a lavorare noi pure per l’Unità, a combattere qualunque straniero o Italiano lo avversi, lasciando al popolo ogni decisione su la forma che deve incarnarla. Ma il diritto di lavorare per l’Unità importa diritto di consiglio; e di questo intendiamo usare liberamente quant’altri, come uomini ai quali l’Italia è Patria, e che hanno operato costantemente a fondarla.

Non vi è tra noi contesa sul fine dell’oggi, accettiamo tutti il voto della maggioranza; la contesa è sui mezzi di raggiungere sollecitamente l’Unità che tutti vogliamo. Su quel terreno comincia il dissenso. Chi pretende impedirci di esprimerlo è intollerante, esclusivo, settario: continua con nomi diversi il sistema dei padroni che i nostri sforzi hanno rovesciato. Chiediamo libertà per dire che non la repubblica è il miglior governo; ma che noi, 25 milioni d’Italiani, dobbiamo essere in casa nostra padroni; che possiamo essere tali se tutti vogliamo; che la nostra libertà sta sulla punta delle nostre baionette e nella ferma determinazione delle anime nostre, non nei consigli o nei cenni di Francia o dell’Aule diplomatiche; che voleva far dipendere dal beneplacito di Luigi Napoleone, o d’altri che sia, è un prostituirla, un immiserirla anzitutto, un mettersi a rischio di perderla nuovamente dichiarandocene immeritevoli. : che senza Roma e Venezia non v’è Italia; che eccettuata la guerra del 1859 provocata dall’Austria e sostenuta a prezzo di Nizza e Savoia, dall’armi dell’impero Francese, eccettuata l’invasione delle provincie Romane provocata da noi, dalla necessità che creammo noi, nessuna iniziativa d’emancipazione Italiana appartiene al programma Cavour, che Roma e Venezia rimarranno schiave dello straniero, se l’insurrezione e la guerra dei volontari non le conquistano a libertà. Chiediamo libertà per dire che non si fonda la Patria libera ed una annettendo  una o altra provincia al Piemonte; ma confondendo Piemonte e tutte le provincie nell’Italia in Roma che n’è core e centro; che l’annessione immediata delle provincie conquistate a libera vita, ponendole sotto il dominio del programma di Cavour e sottraendole a quello di Garibaldi, arresta il moto, toglie le forze del Paese dalle mani di chi vuole usarle per dare a chi vuole condannare all’inerzia, e cancellare per un tempo l’idea dominatrice. Chiediamo questo e non altro: Confutateci ma non calunniate. Non ripetete sempre stoltamente o di mala fede che noi lavoriamo ora per la repubblica, quando taciamo di repubblica da due anni. Non v’ostinate a giudicarci senza leggerci. Non ripetete, servi ciechi di ogni gazzetta ministeriale, affermazioni smentite cento volte dai fatti. Non aizzate contro noi perfidamente con la menzogna, le passioni d’un popolo che deve a noi in gran parte quanto ei sente, quanto ha conquistato della propria unità. La menzogna è l’arte dei tristi codardi. La credulità senza esame, è abitudine d’idioti.”.

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