Di Santi Maria Randazzo
Per ricordare, da Rugbista, Giuseppe Azzaro, già sindaco di Catania, già vicepresidente della Camera dei deputati, da poco scomparso pubblichiamo una sua memoria quale giocatore di Rugby, che è inclusa nel testo del libro “Storia del Rugby a Catania”, edito dal CUS Catania, nella quale è illustrato il contesto sociale e sportivo della Sicilia dell’immediato dopoguerra
1946: una pagina di rugby a Catania nel primo dopoguerra, nei ricordi dell’on. Giuseppe Azzaro, che praticò questo sport in quegli anni.
“Sono nato nel 1925 e sono certamente uno degli ultimi ragazzi, ancora in questo mondo, che nel 1945 diedero vita alla seconda generazione di rugbisti catanesi. A farmi conoscere il rugby fu Franco Caponetto un abile sarto che praticava questa attività già dal 1934 e che aveva dovuto sospenderla per la chiamata alle armi per la seconda guerra mondiale. Santo Caponetto tornando a Catania, aveva ripreso contatto con altri due rugbisti della prima generazione, anche loro reduci. Nino Musumarra e Nino Lombardo, ed avevano per gli allenamenti chiesto ed ottenuto l’utilizzo dello Stadio di Cibali, ridotto da incuria ad uno spazio pieno di erbacce. I tre avevano cercato e trovato dei giovani, allora quasi tutti ventenni, disposti a fare quello sport che allora era l’unico praticabile non essendolo tutti gli altri per la mancanza di attrezzature e di strutture indispensabili. Quei giovani, Walter Pignataro, Geo Magri, Saverio Barbagallo, Pippo Padalino, Andrea Cali, i due fratelli Colomba,Vincenzo Squillace da Enna fra gli altri, si entusiasmarono subito. Il rugby è uno sport che esalta il coraggio e la generosità, richiede uno sforzo fisico eccezionalmente intenso e prolungato e prevede scontri di notevole durezza. Certamente le regole del gioco che prevedono la punizione dei falli rendono non pericolosa la competizione anche se essi, non sempre e non tutti, sono rilevati dagli arbitri costretti a vederli in mezzo ad una ventina di persone avvinghiate che lottano per entrare in possesso della palla ovale. Per questo la virtù prima e indispensabile che un rugbista deve possedere è la lealtà. Senza di essa il gioco diventa belluino e cattivo. Come quasi tutti sanno il rugby consiste nel depositare la palla nell’ultimo tratto (area di meta) del campo avversario dopo avercela portata con la velocità o con la forza attraverso passaggi all’indietro della palla da un giocatore all’altro della medesima squadra. In questo caso si procede da parte della squadra che ha segnato la meta alla “trasformazione” che consiste nel calcio della palla da una ventina di metri. Per conquistare ulteriori tre punti la palla deve passare al centro di due lunghi pali infitti sulla linea interna dell’area di meta.
Uno dei falli più frequenti, quindi, è il passaggio in avanti, volontario o meno di un giocatore, che viene punito con lo scontro fra i due pacchetti di mischia (otto giocatori) che è uno degli elementi della formazione. Gli altri sono i “tre quarti, i giocatori più veloci, (cinque elementi) che ricevono la palla dal “mediano di mischia” (uno) che la raccoglie nella parte posteriore del pacchetto di mischia vincente. Il giocatore che rimane fermo nella sua parte di campo non partecipando all’attacco (“l’estremo “) ha il compito importantissimo di intercettare la palla perduta dalla sua squadra e calciata in avanti (non quindi lanciata in avanti anche con le mani come fa il portiere di una squadra di calcio) dagli avversari per avviare la controffensiva affidata ai più veloci della squadra. Se, infatti, uno di questi velocisti giunge prima dell’estremo su di essa o costui ne sbaglia la presa, segna immancabilmente la meta. Le più frequenti occasioni per pervenire nel possesso della palla e iniziare l’attacco sono: la rimessa laterale della palla uscita per opera di un giocatore che molte volte intenzionalmente la calcia fuori dal campo di gioco, il più vicino possibile al rettangolo di meta avversario, nella speranza di conquistarla lui o un altro suo compagno saltando più in alto di tutti gli altri quando il mediano di mischia avversario rimette in campo la palla, “touche”, lanciandola dal bordo-campo lungo la linea mediana dei giocatori delle due squadre schierati di fronte a lui in fila indiana e a contatto di gomito. Seconda frequente occasione è la vittoria del pacchetto di mischia che respingendo indietro quello avversario consente alla palla deposta dal mediano di mischia al centro dei due team avvinghiati di uscire dalla parte posteriore del pacchetto vincente che il mediano di mischia lancia prontamente all’indietro verso i “tre quarti” pronti a scattare in avanti. Commette fallo colui che conquista la palla aggirando alle spalle il pacchetto di mischia avversario. È un fallo di fuori gioco. Sono sufficienti queste informazioni per poter gustare una partita di rugby, che è essenzialmente uno spettacolo di forza fisica, coraggio, sprezzo del pericolo, esibizione di velocità e ferma determinazione di prevalere.
E questi caratteri erano sicuramente posseduti da quei giovanotti che cominciarono nel 1945. Erano quelli tempi in cui nessuno era in grado di avere un equipaggiamento sportivo: ci presentavamo agli allenamenti con calzoncini ricavati da vecchie mutande dei nostri padri, con magliette logorate dall’uso, con scarpe vecchie non più usabili per la vita quotidiana. Ma nessuno si lamentava o pretendeva chissà che: per tutti noi era già appagante aver dimostrato agli altri e a noi stessi di saperci fare e di progredire. La svolta avvenne per opera di due fratelli dell’alta borghesia. Ambedue avvocati e figli di uno dei maggiori luminari del foro di Catania che 151 finanziarono la squadra per fame im team competitivo. Erano i fratelli Lombardo con studio legale in Viale Regina Margherita. La situazione non cambiò di molto ma c’era un supporto tecnico amministrativo che ci inseriva nel mondo siciliano della competizione sportiva. Ovviamente non esisteva fra la società Amatori e i giocatori un impegno contrattuale, un obbligo di assicurazione, o di remunerazione ma noi non volevamo altro che misurarci con altre squadre e vincere. La prima occasione si presentò nel 1946. La società di rugby di Palermo si disse disposta a ospitare la squadra di Catania per un incontro a Palermo ed uno successivo a Catania. L’incontro fu fissato per la seconda decade di Gennaio di quell’anno. L’accordo consisteva nell’obbligo della società palermitana di farsi carico del vitto (due pasti), dell’alloggio (una notte) e delle spese dei biglietti ferroviari. Partimmo in sedici compreso l’accompagnatore, che era Nino Musumarra, dalla Stazione Centrale di Catania alle ore quindici del 7 gennaio stipati nei due scompartimenti che ci erano stati assegnati in vagoni di terza classe allora con i sedili di legno.
La durata del viaggio era prevista di sei ore; contavamo di arrivare in serata a Palermo, cenare andare a letto per poi, l’indomani mattina visitare e fare in breve allenamento nel campo di gioco prima del pranzo essendo stata fissato l’inizio dell’incontro per le ore quattordici. Ma le cose andarono in tutt’altro verso: il treno, fra fermate lunghe e impreviste in tutte le stazioni e un guasto ai freni, accumulò un ritardo di circa sei ore facendoci arrivare a Palermo nelle prime ore del mattino affamati e pieni di freddo. Fummo ospitati in una grande camerata di un collegio di preti e ci fu dato un panino con mortadella che divorammo in un paio di morsi. Dormimmo male e poche ore. L’indomani mattina sveglia alle sette e colazione alle otto: pane, marmellata latte e un’arancia. Attorno alle dieci ci recammo sul terreno di gioco che trovammo quasi impraticabile per la pioggia che era caduta tutta la notte e continuava a cadere, tal che neanche provammo a sgranchirci le gambe. I dirigenti del club palermitano esclusero subito l’ipotesi di un rinvio della partita quale fosse stata per essere la condizione del campo nel pomeriggio. Tornammo ove avevamo dormito e attorno alle undici e trenta ci fu servito il pranzo: spaghetti al sugo a volontà e una microscopica fetta di carne con insalata di lattuga e cipolla in abbondanza. Ancora arance. Quando arrivammo sul campo pioveva ancora ma fummo pregati di scendere comunque in campo alle quattordici; Altro tentativo di rinviare la partita: altro diniego, minaccia di non ricevere alloggio, vitto ed i biglietti ferroviari per il ritorno se non giocavamo, prova di rimbalzo della palla: positiva. Scendemmo in campo. Sin dalle prime battute capimmo che i palermitani volevano umiliarci. Cominciaro- 152 no con pesanti ironie sul nostro abbigliamento approssimativamente sportivo per continuare frasi pesanti sui difetti dei catanesi e qualche spintone. Su consiglio dell’accompagnatore non rispondemmo alle provocazioni e la partita finalmente iniziò. Il primo tempo vide trenta giovanotti all’inseguimento di una palla bagnata che scivolava come un’anguilla e che non ne voleva sentire proprio di essere afferrata e tenuta ferma. Molti i passaggi in avanti, molte le conseguenti mischie faticosissime in un terreno che era più un acquitrino che un campo erboso. Nessuna delle due squadre era riuscita a segnare una meta o a conquistare un punto.
Il dramma avvenne all’inizio del secondo tempo. Alla prima mischia il pilone sinistro del pacchetto di mischia catanese, Santo…, un ragazzo peloso come un orso e forzuto come un toro,che faceva paura solo a guadarlo, si accorse di aver perduta la collanina che portava al collo e alla quale egli attribuiva virtù di protezione. Il fatto gli aveva procurato un incontrollabile crisi di panico da cui non riusciva ad uscire, ed il panico è la peggiore cosa che possa capitare ad un rugbista specialmente se impegnato nel pacchetto di mischia in prima fila. L’effetto fu quello che ogni volta che l’arbitro chiamava una mischia Santo non si affrettava verso il punto dello scontro e non entrava in mischia. Il mio ruolo era quello di “tallonier” di prima fila, quello cioè di cozzare direttamente con la prima fila del pacchetto avversario e di tentare di spingere col tacco all’indietro la palla che il mediamo buttava al centro dei due pacchetti avvinghiati per agevolargliene la presa. Il tallonier abbraccia le spalle dei due piloni e tenta di abbassarsi il più possibile per sollevare il tallonier avversario riducendo cosi la forza della sua spinta. Se manca uno dei due piloni di prima fila lo sforzo di spinta non è equilibrato e prevale quella avversaria. In un primo momento io che giocavo a tallonier centrale non compresi perché Santo faceva lo “svagato” facendoci perdere tutte le mischie; solo dopo mi resi conto che era incappato in una crisi di panico che non riusciva a superare e non era possibile il cambio del giocatore per la semplice ragione che non avevamo “panchina” e per non infliggere una ulteriore umiliazione a Santo con grande giubilo dei giocatori palermitani che avevano già fiutato l’anomalia del nostro pacchetto. In trenta minuti essi ci rifilarono tre mete facendoci uscire dal campo inzaccherati con la testa bassa e i musi lunghi tra i crescenti sfottò dei nostri avversari e le malignità del pubblico presente. Fortunatamente il campo sportivo era fornito di provvidenziali docce con acqua calda (che noi a Catania non avevamo) che ci rimisero a posto.
Prendemmo i bagagli che avevamo portato con noi e ci avviammo verso la stazione centrale di Palermo da dove saremmo partiti alle ore 18 (il pernottamento era previsto per una sola notte). L’organizzazione ci aveva prepa- 153 rato un sacchetto per la cena contenente panini con la mortadella, frittelle, un cannolo di ricotta e arance. Fortunatamente il viaggio, durante il quale parlammo dei soprusi dell’arbitro, delle canagliate dei nostri competitori e delle vendette che non ci saremmo risparmiate nella partita di ritorno durò le sei ore previste e ci permisero di arrivare nelle nostre case subito dopo la mezzanotte. Due cose mi sono rimaste impresse nella mente di quelle ore: la frittata calda che mi preparò mia madre all’una del mattino e la morbidezza del materasso che non avevo notato mai prima. Non vi fu però partita di ritorno non si capì come mai i palermitani rifiutarono ogni nostra insistente richiesta. Intanto la situazione evolveva, gli universitari avevamo fondato il Centro Universitario Sportivo che aveva organizzato una propria squadra che avrebbe scritte belle pagine della storia del rugby catanese.”