La cultura della Sicilia nel Settecento tra salotti, Accademie e monasteri

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Di Gloriana Orlando

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Nel corso del Settecento la Sicilia era una meta privilegiata per le élites culturali che viaggiavano per completare la propria formazione, e Catania rappresentava il polo di attrazione più forte, grazie all’influenza del principe Ignazio Paternò Castello di Biscari, archeologo, mecenate, anfitrione generoso, che ospitava l’intelighenzia europea nel suo magnifico palazzo edificato dopo il terremoto sulle rovine delle mura di Carlo V.

Secondo una moda molto diffusa nelle principali città, anche a Catania, nel corso del Settecento, era nata l’abitudine di tenere delle conversazioni, le nobildonne ricevevano nei loro salotti, in giorni stabiliti, intellettuali, artisti, poeti e non disdegnavano di partecipare alle Accademie nelle quali erano ammesse al pari degli uomini, in adunanze separate però, o in certi casi, soltanto inviando i propri versi. Proprio dai racconti di viaggio apprendiamo lo stupore di chi, visitando la Sicilia, scopriva che l’ambiente culturale dell’isola, aperto alle donne, era sicuramente all’avanguardia rispetto persino alle capitali europee. Purtroppo solo pochi scritti delle poetesse del Settecento sono giunti fino a noi, di alcune possediamo solo il nome, e di moltissime altre nemmeno quello, anche se dai manoscritti continuano ad affiorarne sempre di nuovi.

In ambito palermitano si riscontravano abitudini che hanno anticipato di diversi decenni gli spiriti emancipazionisti. Infatti nella prima metà del Settecento si svolse una disputa intorno alla figura della donna – estrema propaggine del filone della letteratura misogina che prende le mosse nel Medioevo con i goliardi – disputa scatenata da un opuscolo pubblicato nel 1734 da Luigi Sarmento, Lu Vivu Mortu, effettu di lu piccatu di la carni. Il Sarmento nella sua invettiva aveva attaccato l’onore delle donne, scagliandosi soprattutto contro la loro presunta mancanza di sensibilità morale. Al suo libello tra gli altri rispose “per le rime” nella stessa lingua siciliana da lui usata, la clarissa Dorotea Isabella Bellini di Guillon. Di lei si sa molto poco, doveva essere evidentemente colta, attenta a quanto accadeva nel mondo circostante, ben salda nelle sue idee. Si firmava con lo pseudonimo anagrammatico di Isabella Teodora Longuilel Nibeli Napolitana, in omaggio forse al costume accademico del tempo, oppure per un’esigenza di anonimato, essendo monaca di clausura. Purtroppo del suo componimento possediamo solo il titolo: Sintimenti in difisa di lu Sessu Fimmininu, cumpusizioni puetica, cavata da li proverbii di Salumuni. Risposta a lu libru intitulatu Lu Vivu Mortu. In assenza di studi sulla figura di Isabella Bellini è difficile ipotizzare la sua fisionomia intellettuale e culturale e indicare le ragioni che la indussero a entrare nel vivo della polemica che infiammava le cronache letterarie palermitane e che era stata assai viva anche nell’Europa del primo Settecento, la cosiddetta querelle des femmes, che si interrogava sulle ragioni storiche della convinzione dell’inferiorità femminile, mettendo in discussione il primato maschile, anche sulla base delle Sacre Scritture. Non ci deve sorprendere il fatto che una suora di clausura potesse partecipare ad una tenzone sul ruolo della donna nella società, perché il clima dell’età dei lumi faceva sì che le monache godessero di una certa libertà, alcune addirittura si esibivano in concerti dinanzi ad un pubblico, solo femminile però. Rimanevano tuttavia molte restrizioni se, come testimonia il Pitrè, venne costruito sul Cassaro un belvedere che consentiva alle monache di clausura di assistere ad ogni spettacolo, sacro o profano che fosse (La vita a Palermo nel Settecento, Palermo 1893). Ma in realtà più d’uno ne sorsero, perché il Cassaro era un grande palcoscenico, da lì passavano le processioni, i cortei, le carrozze dei nobili che scendevano alla Marina o salivano alla Cattedrale, e furono costruite infatti, solo nella zona di piazza Pretoria, ben tre logge-belvedere, quella angolare del palazzo Guggino Chiaramonte-Bordonaro per le monache della Martorana, che vi giungevano attraverso un percorso labirintico nei sotterranei dei palazzi, quella del Monastero di Santa Caterina e pure una per i Padri di San Giuseppe, ma senza grate per assenza di vincoli di clausura nei conventi maschili.

Anche del testo di un’altra partecipante alla querelle, Genoveffa Bisso possediamo solo il titolo La difisa di li Donni in risposta di lu libru intitulatu Lu Vivu mortu”. Ci è giunto però il sonetto da lei composto, nella consueta forma pomposa, per l’ammissione all’Accademia degli Ereini: “Zirenide Castalia /viene a sapersi per questo nome fra le /Ninfe de’ Monti Erei la Signora Geneviefa Biffo da Palermo” e contenuto in una famosa raccolta dell’epoca Scelta di sonetti (Venezia 1737) del carmelitano Teobaldo Ceva, ereino pure lui. In versi intensi e asciutti, contenenti un’amara riflessione sulla condizione dell’essere umano che si ritiene vittima dell’ingiustizia divina, la poetessa invita a considerare che è amato da Dio chi soffre, non chi sembra ottenere gran copia di piaceri mondani.

Non solo “pastorellerie” arcadiche, dunque, ci ha lasciato il Settecento ma anche versi come quelli di Genoveffa Bisso, espressione di un mondo spesso misconosciuto, ma certamente ricco

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