Palermo. Pedro Arrupe: è ancora possibile “Immaginare la Pace”?

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L’Istituto Pedro Arrupe, la comunità di Sant’Egidio e il giornalista Domenico Quirico incontrano i giovani

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E’ ancora possibile immaginare la pace nonostante i diversi scenari di guerra? A rispondere sono stati, nel corso di un incontro, moderato da Anna Staropoli, ieri sera all’Istituto di formazione politica Pedro Arrupe – Centro studi sociali, Vincenzo Ceruso ed Emiliano Abramo della comunità di Sant’Egidio insieme al giornalista de La Stampa Domenico Quirico. All’incontro erano presenti diversi giovani.

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“I potenti di questo mondo si proiettano in un futuro lontano accessibile solo a pochissimi eletti che rende secondari e del tutto trascurabili i problemi dell’oggi – ha detto nella sua introduzione p. Gianni Notari, direttore dell’Istituto di formazione politica Pedro Arrupe -. E’ vero che siamo pedine manovrate dalle potenti logiche del mercato mondiale ma non dobbiamo arrenderci allo stato delle cose. Nonostante tutto, dobbiamo ancora con forza sognare una pace che ci spinga ad immaginare la possibilità concreta di cambiare le cose. Questo è già un segno di speranza che non deve spegnersi per il futuro di un mondo diverso e senza guerre”.

“Nonostante i conflitti in corso, anche se con molta difficoltà, dobbiamo continuare ad immaginare scenari di pace – ha affermato lo scrittore Vincenzo Ceruso della Comunità di Sant’Egidio -. Per fare questo, occorre ripensare ad una arte del vivere insieme valorizzando tutte le diversità con incontri e relazioni che alla fine portano buoni frutti. Le religioni possono essere benzina per alimentare conflitti ma anche, soprattutto risorse per realizzare la pace tra i popoli. E’ quello che ha sempre fatto la comunità di Sant’Egidio nel mantenere aperti alcuni canali di dialogo internazionale. Pensiamo ai viaggi del cardinale Matteo Zuppi in Ucraina e Russia e ai corridoi umanitari”.

“Nel mio lavoro ho cercato sempre di scrivere una prosa onesta sugli esseri umani – ha raccontato Domenico Quirico, giornalista, inviato di guerra de La Stampa -. Per parlare di pace dobbiamo parlare della guerra che è la legittimazione ad uccidere gli altri con le violenze più orrende. Per contrastarla bisogna smontarla pezzo per pezzo. Chi è nato e ha sempre vissuto in guerra è completamente diverso da noi occidentali. La differenza fra noi e loro è enorme. Noi raccontiamo la nostra vita mentre loro ti raccontano la loro resistenza alla storia per sopravvivere ogni giorno tra mille difficoltà. Resto fedele ad un giornalismo di condivisione che per raccontare ha attraversato e vissuto le condizioni drammatiche di molti Paesi. Il diritto di scrivere deve essere conquistato. Oggi assistiamo ad un modo troppo frammentario e parziale di raccontare le guerre. L’atto giornalistico più onesto, dentro i contesti di guerra, può essere, a volte, quello di non scrivere. Se non si riesce a vedere ciò che si vorrebbe raccontare allora è meglio tacere. Oggi per contrastare i registi della guerra occorre mettere in atto un pacifismo concreto e molto rivoluzionario che faccia la guerra alla guerre. Questo lo si può fare soltanto smascherando tutti i grandi affari economici di coloro che hanno interesse che la guerra continui come investimento di lungo periodo”.

“Sant’Egidio continua ad adoperasi con i corridoi umanitari per alimentare una cultura della pace – ha aggiunto pure Emiliano Abramo, presidente regionale della comunità di Sant’Egidio -. A una cultura della guerra che è diventata mentalità come possiamo resistere? Si resiste con la cultura e con la conoscenza. Conoscere significa volere bene gli altri diversamente dalla cultura della guerra che ci fa rimanere ignoranti. Pertanto, in questa guerra mondiale a pezzettini, deve continuare ad esserci il bisogno di essere rilevanti con un lavoro capillare di artigianato di pace occupandoci di un bambino di periferia, di un senzatetto e di altre persone che soffrono. Chiediamoci cosa possiamo, fare pezzo per pezzo, per fare crescere sempre di più la cultura della pace”.

 

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