Alleanza tra azienda italiana, università e centri specializzati ucraini per formare i medici nel Paese e aiutare la popolazione
Intervenire sulle cicatrici e le ustioni da guerra prima che peggiorino e diventino irrecuperabili. Agendo in modo innovativo grazie ai progressi della Medicina estetica e ricostruttiva e puntando a conservare la funzionalità della zona interessata e rendere meno impattante l’esito, fisico ma anche sociale e lavorativo, per la persona coinvolta. E’ l’obiettivo del progetto ‘Mission to Kiev’ promosso da ‘RigeneraDerma’ oggi a Roma. Nato per curare le donne oggetto di violenza, il progetto RigeneraDerma oggi viene rivolto gratuitamente a militari e civili feriti nel corso della guerra in Ucraina. L’iniziativa è stata ideata da Maurizio Busoni, fondatore dell’azienda Expo Italia, che ha creato RigeneraDerma, ma vede una forte alleanza con il mondo scientifico.
La missione umanitaria ‘Mission to Kiev’ si avvale del patrocinio dell’Università di Verona con la collaborazione del professor Andrea Sbarbati e dell’ingegnere Sheila Veronese, del professor Francesco D’Andrea dell’Università Federico II di Napoli; di Andrzej Ignaciuk, past presidente Uime (Union Internationale de Mèdicine Esthétique) di Varsavia e di un gruppo di medici ucraini. La metodologia Biodermogenesi per la rigenerazione dei tessuti cutanei, sarà messa a disposizione dei medici ucraini, si parte con un gruppo di 10, aderenti all’iniziativa che erogheranno le terapie ai pazienti dopo specifica formazione. “Al momento puntiamo a formare i primi 10 medici ucraini e la stima, almeno all’inizio è di aiutare con il trattamento un centinaio di pazienti. A noi interessa far sapere alla popolazione Ucraina che oggi ha un aiuto gratuito per le ferite da guerra”, ha spiegato Busoni.
‘Mission to Kiev’ ha solide basi scientifiche. “Nonostante la storia dell’umanità sia stata scandita dalle guerre, nessuno si è preoccupato di curare le cicatrici dei feriti sopravvissuti, che sono stati abbandonati a loro stessi, con problemi di relazione causati proprio dalle cicatrici, talvolta deturpanti, e molte volte impossibilitati a rientrare nel mondo del lavoro, perdendo di conseguenza la propria indipendenza economica. Ad oggi – ha evidenziato Busoni – non esiste un protocollo terapeutico convalidato, né una scala di valutazione del danno. Pertanto siamo partiti dallo studio delle cicatrici di guerra e delle loro conseguenze, quali ad esempio dermatiti gravi e talvolta croniche o devastanti forme di tumore cutaneo come le ulcere di Marjolin, sviluppando una scala di valutazione di tali cicatrici che abbiamo chiamato Powasas, (Patient and observer war scar assessment scale). La scala verrà adottata per tutta la durata di Mission to Kiev e permetterà inizialmente di determinare la gravità delle lesioni e successivamente di valutare i miglioramenti apportati. Saranno quindi raccolti i dati di tutti i pazienti curati al fine di pubblicare degli studi clinici destinati a ridurre il vuoto informativo nell’ambito della cura delle cicatrici di guerra”.
“Le cicatrici di guerra sono la conseguenza di traumi da arma da fuoco e hanno caratteristiche peculiari. Si tratta infatti di ferite spesso estese, di tipo lacerocontuso, infette e con perdita di tessuto. La guarigione di tali ferite è verso cicatrici di tipo patologico, ispessite, spesso dolenti e retraenti, con associati disturbi funzionali se localizzate in zone flesso-estensorie quali arti e collo. La terapia non è di facile realizzazione”, ha spiegato Francesco D’Andrea, direttore del Dipartimento di Chirurgia plastica ed estetica del Policlinico Federico II di Napoli e past president della Sicpre, la Società di chirurgia plastica, ricostruttiva ed estetica.
“Le ferite di guerra rappresentano da sempre una sfida per la medicina, perché nascono in situazioni difficili e sono poco prevedibili, sia per la sede, sia per il meccanismo di formazione. Sono sempre state una sfida per l’umanità. Si potrebbe dire che la medicina è nata per curare le ferite di guerra. E questa sfida non è stata ancora vinta. Nella cicatrice noi abbiamo un esempio di quello che avviene in ogni parte del corpo durante l’invecchiamento, ma in modo acuto – ha sottolineato Andrea Sbarbati, ordinario di Anatomia umana, direttore della Sezione di Anatomia umana e Istologia, Università degli Studi di Verona – Si generano, infatti, fenomeni di atrofia, di ipertrofia, che portano ad un tessuto fibrotico con problemi vascolari, come succede nei tessuti invecchiati. E’ come se il tessuto invecchiasse nel giro di pochi giorni o mesi. Oggi abbiamo a disposizione delle metodiche in grado di ringiovanire il tessuto. Potremmo dire, in termini tecnici, di mesenchimalizzare il tessuto, e abbiamo il dovere morale di sviluppare queste tecnologie perché possono essere utili in tante situazioni patologiche, anche al di fuori del contesto di guerra. L’Università di Verona da tempo studia il trattamento presentato sia dal punto di vista anatomico-funzionale, sia bio-ingegneristico. I risultati di questi studi sono stati pubblicati su riviste scientifiche internazionali. In particolare, sono state evidenziate possibilità di induzione di fenomeni rigenerativi dei tessuti”.
“Per capire come trattare le ferite di guerra è fondamentale capire come si determinano. Focalizzandosi, in particolare, su quelle causate da arma da fuoco o esplosivo, si deve considerare che la ferita è generata da una scottatura termica associata ad una bruciatura chimica. L’effetto termico si esaurisce con il raffreddamento dei tessuti. Gli agenti chimici, invece, continuano ad erodere anche in profondità i tessuti fino a che l’ultima molecola di agente non viene lavata via dal corpo. Curare questo genere di danni significa ristrutturare tutti i tessuti coinvolti, talvolta rigenerandoli. Perché tanto più profonda è la ferita, tanto più estesa la cicatrice, e tanto più grave il danno funzionale, e, conseguentemente, il danno sociale”, ha concluso Sheila Veronese, esperta di medicina rigenerativa, che si occupa di dispositivi biomedicali, dal funzionamento alle interazioni fisiologiche, presso il dipartimento di Scienze neurologiche, biomediche e del movimento dell’Università di Verona. (Adnkronos)