Dossier sulle trivellazioni in Sicilia a cura di Salvo Barbagallo, Marco Di Salvo, Ernesto Girlando (Originariamente pubblicato su "La Voce dell'Isola" n°1/2011)
Nel nostro territorio si raffina il 30% del petrolio consumato in Italia e con una riserva di greggio che alcuni hanno stimato intorno ai 2,3 milioni di tonnellate
Riducono il mare di Sicilia in un colabrodo
Di Salvo Barbagallo
Il petrolio e la Sicilia: una storia vecchia che periodicamente torna alla ribalta per essere subito dimenticata. Ma le trivelle vanno avanti, continuano a perforare estraendo il prezioso greggio, altre trivelle entreranno in funzione, il punto però resta sempre lo stesso: alla Sicilia non hanno portato benessere, né sviluppo. Coloro che si arricchiscono sono perennemente gli stessi, i petrolieri, la maggior parte americani. Oggi c’è Crocetta alla Presidenza della Regione Siciliana, ieri c’era Raffaele Lombardo, Totò Cuffaro e tutti gli altri presidenti che li hanno preceduti: nessuno ha cambiato lo stato delle cose. Di questi tempi a protestare sono quelli del Movimento 5 Stelle. Lo hanno fatto per il protocollo d’intesa tra Regione Assomineraria e Enimed, denunciano “Crocetta punta al passato e uccide il futuro della Sicilia”, ma le parole e le proteste non porteranno a nulla, così come è accaduto per il MUOS di Niscemi. Dunque altre trivelle on shore e off shore in Sicilia. Anche noi da anni denunciamo la paradossale situazione, nella consapevolezza che anche le “denunce” non portano a nulla.
Nel gennaio del 2011, quando “La Voce dell’Isola” era pure in cartaceo e presente nelle edicole siciliane, pubblicammo sul caso “Petrolio Sicilia” un Dossier che offriva un quadro completo di ciò che accadeva. Riproponiamo alcuni stralci di quel Dossier tali e quali vennero scritti quattro anni addietro perché (a parte la data di pubblicazione e i relativi aggiornamenti) è come se fosse stato redatto oggi. A dimostrazione che in Sicilia (ma solo in Sicilia?) non cambia un bel niente. Una constatazione che, purtroppo, lascia l’amaro in bocca e mostra anche l’impotenza del cittadino e della collettività nei confronti di chi prende decisioni in nome e per conto di tutti i Siciliani. Tutti, ovviamente, intoccabili e (apparentemente) indistruttibili. Possono cambiare i nomi, ma alla fine chi governa si sente autorizzato ad agire come agisce. Per costoro il “bene comune” non esiste. Forse esiste qualcosa di diverso.
Nel nostro territorio si raffina il 30% del petrolio consumato in Italia e con una riserva di greggio che alcuni hanno stimato intorno ai 2,3 milioni di tonnellate
Di Marco Di Salvo
Molti occhi sono puntati sulla nostra isola, complice anche l’inerzia (interessata?) da parte del governo nazionale.
I numeri
L’isola è già un territorio dove si raffina il 30% del petrolio consumato in Italia e con una riserva di greggio che alcuni hanno stimato intorno ai 2,3 milioni di tonnellate (per informazioni rivolgersi a chi abita ad Augusta, Priolo, Milazzo e Gela qualificate
ad alto rischio ambientale, con inchieste giudiziarie per inquinamento e disastro ambientale tutt’ora in corso). In più c’è un altro aspetto che fa riflettere: quello delle royalties, ovvero i diritti che le compagnie pagano alla Sicilia. Bene, da alcune ricerche risulta che quelli siciliani sono tra i più bassi d’Italia. Ricerche non particolarmente
difficili visto che questa è un’informazione che forniscono anche i produttori di petrolio nei loro siti: «La struttura delle royalties in Italia è una delle migliori del mondo. Per i permessi offshore le tasse sono solo del 4%, ma nulla è dovuto fino a 300mila barili l’anno». Un bell’affare per tutti insomma, tranne che per i siciliani, naturalmente.
E spuntano i Notriv
Inutile dire che, almeno a livello locale e di tam tam internettiano, questa situazione a fatto nascere subito molte aggregazioni che contestano questa ipotesi di sviluppo per l’isola. E questi gruppi (ribattezzati dalla stampa, con poca fantasia, Notriv) si sono messe in moto ed hanno scoperto alcune altre notiziole sfiziose. Secondo alcune associazioni locali sono già 30 le autorizzazioni concesse in gran segreto. Secondo altri sono invece 40 le compagnie interessate a trovar posto alle loro piattaforme nel Mediterraneo, e che hanno fatto già richiesta al ministero per lo sviluppo economico di indagini e ricerche per scoprire nuovi pozzi di petrolio.
Sono soprattutto americani, ma anche yemeniti e irlandesi che coltivano l’idea di affondare le proprie trivelle davanti la costa siciliana. Sei sono le piattaforme attive collocate lungo la costa Iblea, a Ragusa e nel Golfo di Gela, di Eni ed Edison. Venti i permessi di ricerca già concessi. Alle isole Egadi, ancora nel Golfo di Gela, a Siculiana Porto Empedocle, Capo Rossello Palma di Montechiaro, Sciacca Agrigento, Sciacca Siculiana, Isole Pelagie, due a Punta Bianca Licata, a Stagnone Capo Feto, a Selinunte fiume Verdura, a Scoglitti Pozzallo, a Fiume Drillo Punta D’Aliga a Mazzara del Vallo Menfi. Luoghi dove sono già in corso ricerche. Venti sono le compagnie in attesa di una risposta dal governo italiano. Di queste, cinque fanno testa al colosso londinese Nothern Petroleum, che con la Shell ha già iniziato le ricerche in tutto il mediterraneo. La società inglese chiede di poter installare tre piattaforme nel mare delle Isole Egadi per avviare ricerche in una superficie complessiva di 1.600 chilometri quadrati. La Northern Petroleum chiede di poter avviare ricerche anche nel golfo di Gela, nella zona di Capo Rossello ad Agrigento e, insieme agli irlandesi della Petrolceltic Elsa, nel mare tra Siculiana e Porto Empedocle. La Petrolceltic è controllata al 100% dall’omonima società irlandese, e in Italia ha stretto collaborazioni con Vega Oil ed Eni, con la quale chiede di trivellare anche nel golfo di Gela. I canadesi della Hunt oil company, invece, hanno adocchiato tre possibili sorgenti di greggio: tra Sciacca e Agrigento, a Siculiana Marina, e un terzo sito tra Mazara del Vallo e Menfi. E se la Puma petroleum da Londra vuole stanziarsi a Lampedusa e Linosa, un consorzio
composto dalla British gas e della italiane Eni ed Edison è interessata ad avviare ricerche a Licata e Punta Bianca. Anche i texani, dopo il tentativo della Panther Oil nel Val di Noto, vogliono pompare petrolio nel mar siciliano. Precisamente nella zona di Scoglitti e Pozzallo, attraverso la Sviluppo risorse naturali (Srn), società controllata dalla
Mediterranean Resources con sede ad Austin in Texas. Ultima istanza presentata al ministero è quella dei canadesi della Nautical petroleum, che chiedono di avviare ricerche tra la foce del fiume Dirillo e punta D’Aliga.
Un’isola circondata dai pozzi di petrolio
Uno scenario di un’isola circondata dai pozzi petroliferi: questo è quello che potrebbe accadere di qui a qualche anno insomma. Anche se, pare, la politica locale non sembra essere d’accordo. Dal presidente della regione Raffaele Lombardo, che si oppone a nuove trivellazioni, all’Ars che nel mese di agosto ha votato a favore di una mozione contro gli insediamenti estrattivi della San Leon Energy. La società è una piccola srl con 10 mila euro di capitale sociale e una sede in provincia di Lecce. Obiettivo è quello di farsi autorizzare dalle amministrazioni italiane tre esplorazioni petrolifere al largo della costa siciliana, neppure troppo lontano. Tutte con un’estensione compresa tra i 200 e i 500 chilometri quadrati, situate fra Marsala, Sciacca e le isole Egadi. Ferma l’opposizione delle amministrazioni locali ma anche delle organizzazioni che dicono no alle trivelle nei paradisi isolani.
«Il parlamento e il governo siciliani – ha detto Roberto Di Mauro, assessore al territorio che ha preparato un documento di 40 pagine sul rischio ambientale in Sicilia – hanno mostrato all’unisono il loro parere sfavorevole alla trivellazione».
I mari della Sicilia depredati dai vecchi e nuovi petrolieri.Le mani dei Texani sull’oro nero della Sicilia L’area più a rischio è quella che va da Gela verso le coste ragusane
Di Ernesto Girlando
Il cammino sociale ed economico di un paese, di un’area, di una regione non è mai segnato.
È sempre una scelta. Che parecchi dilemmi sul modello di sviluppo futuro (e presente) delle nostre terre non facciano più parte del dibattito politico è una grave diserzione, una delle tante che sono motivo di discredito e rivelano la pochezza della politica, diventata pura e semplice amministrazione dell’ordinario. Ciò non è nemmeno triste. È pura follia, nel senso proprio del termine. Una follia accecante che ha condotto il nostro personale politico a costruirsi un mondo fatto di beghe interne, di vanità personali, di un cursus honorum castale e avulso da quella realtà sociale che dovrebbe essere la sola materia prima della politica. Ogni goccia di sudore versata per regolamenti di conti interni, per dispute correntizie, è una goccia che la gente percepisce come sottratta alla politica e rubata agli elettori.
Nemmeno la stampa internazionale, il prestigioso quotidiano britannico “The Independent”, che appena un paio di mesi fa parlava di un “paradiso colpito dalla maledizione dell’oro nero”, è riuscita a smuovere la politica locale dal suo torpore e, meno che mai, a suscitare in essa quell’effetto di ripensamento culturale e politico sufficiente a capire che il problema esiste ed è pure strutturale.
Il lavoro di chi fa politica è parlare di queste cose. E se non ora, quando?
La nuova ondata di trivellazioni che si abbatte sul territorio del sud-est siciliano e sul mare prospiciente le coste ragusane (e non solo), contrariamente a quanto avvenuto in altre province siciliane, o nella stessa area iblea in un recente passato, passa tra le maglie lasche dell’indifferenza della politica e degli enti territoriali ragusani. Che, a volte, non sono solo indifferenti, ma cercano pure di trarre illusorie rendite dalla corsa all’oro nero.
All’inizio della scorsa estate, diverse compagnie petrolifere hanno ottenuto le autorizzazioni da parte della Regione per trivellare nel sottosuolo in territorio di Scicli. A Cammarana, a due passi dalla zona archeologia dell’antica città di Kamarina, la terra ha tremato, per diverse settimane, 24 ore al giorno sotto i colpi dell’impianto di trivellazione. Poco più in là, in mare aperto, il campo Vega, la più grande piattaforma petrolifera offshore del mare di Sicilia, torna in funzione.
Contestualmente, altre autorizzazioni vengono rilasciate dal Ministero dello Sviluppo Economico alla Peal per la ricerca di idrocarburi in un tratto di mare compreso tra Pozzallo e Marina di Ragusa.
Fanno parte delle oltre 40 richieste presentate al Ministero in un periodo di tempo che va dal 2002 al 2010 e che riguardano un tratto di costa che va da Trapani a Siracusa, per un totale di un’area che si aggira sui 20 mila chilometri quadrati.
Delle 40 richieste, la metà hanno fino ad oggi ottenuto le autorizzazioni necessarie dai ministeri competenti. Siti dell’Unesco inseriti nella prestigiosa World Heritage List, città a forte vocazione turistica, riserve naturalistiche, aree marine protette, financo i Templi di Agrigento e Selinunte, sono minacciati dal rischio, dal depauperamento, dall’inquinamento, considerato che la gran parte dei permessi riguarda siti di ricerca situati a un tiro di schioppo dalla terraferma, sui quali convergono gli appetiti di diverse compagnie petrolifere. Che rischiano di mandare all’aria le attività di resort di lusso e di strutture ricettive che dall’Europa hanno ottenuto sostanziosi capitali per incentivare lo sviluppo del turismo e la promozione delle risorse territoriali.
Insomma la solita ambiguità che pervade la vita e il destino di una terra che non sa dove andare.
Un sistema di sviluppo legato alle vocazioni più intrinseche dell’isola, e l’incoerenza che lascia spazio alle ricerche petrolifere o alla cementificazione selvaggia e indiscriminata del territorio.
Ma se da più parti arrivano segnali di resistenza alla minaccia dei petrolieri e alla caccia all’oro nero siciliano, a Ragusa vige il silenzio più angosciante. Se i sindaci delle città costiere siciliane si mobilitano per organizzare iniziative di protesta – incredibilmente d’accordo a prescindere dalle appartenenze partitiche – a Ragusa il sindaco del capoluogo sigla un’intesa con tre compagnie petrolifere in base alla quale queste si impegnano a riqualificare Piazza della Libertà, nel centro cittadino ibleo, in cambio del rilascio delle autorizzazioni necessarie a trivellare in zona Cammarana. Persino l’allora assessore al Territorio e Ambiente, l’autonomista Roberto Di Mauro, chiamava, non più di tre mesi fa, alla “rivolta” i rappresentanti dei Comuni minacciati dalle trivelle. Da Ragusa, ovviamente, non si mai è visto nessuno.
Purtroppo la Regione non ha nessun potere sulle trivellazioni offshore. Ce l’ha invece su quelle che riguardano il sottosuolo in terraferma, per le quali diverse società hanno ottenuto le autorizzazioni (vedi Scicli e Cammarana). Salvo vedersele bloccare (in zona Cammarana e in contrada Tresauro, sempre nel ragusano) a causa delle incompatibilità con i vincoli dettati dal Piano paesaggistico.
Le incongruenze proprie della politica che non pone mai mano alla soluzione definitiva, quella legislativa. Finché infatti rimarrà in vigore la Legge 14 del 2000 e i suoi disciplinari del 2003, i petrolieri avranno sempre buon gioco.
A tutti è nota l’altra incredibile vicenda dei pozzi di contrada Sciannacaporale, bloccati nel 2008 da una sentenza del Tar su ricorso del Comune di Vittoria e recentemente liberati da quella del CGA che, non entrando nel merito della questione (il pericolo acclarato dell’inquinamento delle falde acquifere), dichiara inammissibile il ricorso del Comune ipparino perché presentato con oltre due mesi di ritardo rispetto ai tempi previsti dalla legge, dando la possibilità alla Panther Oil di riprendere le attività di ricerca petrolifera (e la facoltà di chiedere al Comune di Vittoria un congruo risarcimento dei danni subiti).
Nel passato a nulla sono valsi i tentativi di riformare la materia. Ci provò nel 2005 l’allora assessore al Turismo, Fabio Granata, la cui proposta di legge venne bocciata da una maggioranza trasversale composta da una parte del centrodestra cuffariano e della sinistra diessina.
Materia che scotta, sulla quale ruotano corposi interessi. Ahinoi, non nostri, ma di compagnie private, intente a subordinare gli interessi dei tanti ai propri.
Secondo dati la cui fonte è attendibile (il Ministero dello Sviluppo Economico) al 31 marzo di quest’anno sono stati 12 i permessi concessi in favore di società petrolifere interessate a operare nel Mar Mediterraneo. Oltre a Eni ed Edison, diverse compagnie estere hanno fiutato l’affare. Negli ultimi due anni la metà delle istanze di ricerca è stata presentata da due compagnie britanniche: l’irlandese Petroceltic Elsa e l’inglese Northem Petroleum Uk.
L’area più a rischio è quella che va da Gela verso le coste ragusane: lo stesso braccio di mare che nel corso dello scorso anno ha prodotto 172.000 tonnellate di greggio, estratte dalle installazioni “Gela1”, “Perla” e “Vega A”, di Eni ed Edison. Una quantità risibile, visto che si tratta del 12% del petrolio estratto in Italia, e solo lo 0,6% della quantità complessivamente consumata nel nostro Paese. Ma evidentemente remunerativa per le compagnie petrolifere (con il greggio intorno ai 90 dollari al barile) che tentano di dare l’ultima strizzata ai giacimenti siciliani. Compresi quelli dell’area delle Egadi, che contribuiranno, sotto l’egida della Shell, con 150.000 tonnellate a questa nuova folle corsa all’oro nero siciliano.
Raffaele Lombardo dal suo blog tempo fa ci faceva sapere che “abbiamo detto basta anche alle trivellazioni nei nostri mari. Un tema nel quale occorre cura, attenzione e un rigore estremo.
Ci sono grandi gruppi che richiedono le autorizzazioni, certo, hanno referenti, dipendenti, uomini politici ben disposti ad ascoltarli. Ma vengono a prendere il petrolio da noi, e cosa ci danno?
Due lire. Lo raffinano e a noi la benzina costa più cara che non nella Valle d’Aosta, dove costa la metà, ma anche nel Lazio o quant’altro. E noi per quattro posti di lavoro dobbiamo inghiottire veleno? Ma quello che mi preoccupa però ancora di più è che non si diano autorizzazioni a perforare il mare.”
E le trivellazioni nel sottosuolo in terraferma autorizzate dalla Regione siciliana? Intanto qualcuno provi a spiegare a sindaci e deputati dell’area iblea, impegnati a contrastare, insofferenti ai giusti vincoli e alle regole, alla pianificazione e alla razionalizzazione dello sviluppo, l’istituzione di Parchi e l’adozione del Piano paesaggistico, cosa sta succedendo.
Le perforazioni nel canale di Sicilia minacciano l’istituzione di un Santuario marino previsto dal 2007
Con una interpellanza l’on. Dino Fiorenza, vice presidente della Commissione antimafia e presidente del Gruppo misto, in tema di trivellazioni petrolifere al largo delle coste siciliane ha chiesto al governo Regionale di intervenire in sede di Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’art. 21 dello Statuto della Regione Siciliana, al fine di tutelare ed evitare che possano verificarsi disastri ecologici, simili a quelli accaduti nel golfo del Messico, lungo le coste del mar Mediterraneo.
In particolare, alle 6 piattaforme già attive, l’on. Fiorenza ha fatto rilevare come il Governo nazionale ha concesso ben 20 permessi di ricerca a varie società offshore (tra cui una società con appena 10.000,00 euro di capitale sociale) lungo le coste meridionali della regione dalle Egadi a Pozzallo e al largo dell’isola di Lampedusa.
Fiorenza ha affermato che “Tutto il mondo è a caccia di petrolio nel canale di Sicilia in barba alle più elementari misure di sicurezza, quali interessi si voglio agevolare con tali interessi? È interessante notare che potrebbero nascondersi dei legami tra le società destinatarie di tali permessi e personaggi influenti che si affacciano nel mercato finanziario italiano ed europeo”.
La Libia ad esempio, fino a poco tempo fa era fuori da questo sistema, in soli due anni, ha acquistato quote sociali pari al 7% di UNICREDIT (che ha assorbito il BDS) e il 7,5% della Juventus FC, e che oggi guarda con interesse a società quali Telecom Italia, Finmeccanica ed Eni (e di qualche settimana fa la notizia che il governo di Tripoli ha concesso alla Eni un concessione per l’utilizzo delle risorse energetiche per un periodo pari a 25 anni.)”
L’on. Fiorenza ha sostenuto che tale situazione rappresenta un rilevante pericolo per l’ecosistema dell’Isola, dato dal fatto che il mar Mediterraneo rappresenta un bacino marino chiuso, con un ricambio lentissimo di acque e con un rilevante traffico interno riguardo al trasporto marittimo e commerciale.
La Federazione Nazionale Pro Natura, intanto, si chiede che fine ha fatto l’accordo firmato il 20 novembre 2007 a Tunisi, dall’allora Ministro all’Ambiente, che prevedeva l’istituzione di un Santuario marino nel Canale di Sicilia e che avrebbe posto finalmente sotto tutela una delle aree marine più importanti del Mediterraneo?
Questo accordo seguiva quello firmato tra l’Italia e Malta; il passo successivo sarebbe dovuto essere la firma dell’accordo trilaterale tra Malta, l’Italia e la Tunisia. Da quanto si può vedere, le cose non hanno seguito l’iter programmato e l’accordo trilaterale per istituire in questo lembo di Mediterraneo un’area marina protetta è rimasta solo una speranza di tutti coloro che hanno a cuore il futuro di una preziosa zona di Mediterraneo.
Eppure la legge 222 del 29 novembre 2007 concedeva al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare un contributo straordinario di 20 milioni di euro per l’attuazione di programmi di intervento per le aree protette e per la difesa del mare nonché per la tutela della biodiversità nel Canale di Sicilia.
La Federazione Nazionale Pro Natura sostiene che è inaccettabile che a tre anni di distanza da quando quei fondi vennero destinati con il preciso obiettivo di istituire tre aree marine protette nel Canale di Sicilia, finalizzate alla tutela della biodiversità, tra queste anche quella di Pantelleria, non sia ancora stato chiuso l’iter.
Non solo, per quanto attiene il protocollo internazionale con Malta e la Tunisia, non si conoscono neppure gli elementi conclusivi che definiscono detto trattato internazionale.
Negli ultimi tempi, al contrario, le cose hanno preso una piega diametralmente opposta e l’area anziché diventare un santuario a difesa della biodiversità mediterranea sta diventando una nuova eldorado nelle speranze di discusse società di perforazione e di estrazione petrolifera.
Dopo la drammatica esperienza di quanto accaduto nel Golfo del Messico cosa accadrebbe di intere economie qualora si verificassero incidenti anche di più lieve entità? Economie che potrebbero basare il proprio volano di sviluppo proprio sulle straordinarie ricchezze ambientali storiche e paesaggistiche di cui dispongono sarebbero completamente spazzate via. Non si dimentichi, inoltre, che l’intera area ha una sua fragilità intrinseca che le deriva dalla sua natura geologica vulcanica e dalla attività sismica e ciò aumenterebbe l’ineludibile rischio di incidenti che l’attività di estrazione e trasporto petrolifero comportano.
La Federazione Nazionale Pro Natura si è rivolta agli organi competenti, in primo luogo al Ministro dell’Ambiente, on. Stefania Prestigiacomo, alla Regione Siciliana affinché verifichino la rispondenza alle normative vigenti da parte delle imprese di perforazione che stanno operando nell’area e che, per un principio di precauzione, sospendano le tutte attività al momento in corso.
Auspichiamo altresì che venga istituita l’Area Marina Protetta a Pantelleria, quindi riavviato quel grande progetto tendente a rendere l’intera area del Canale di Sicilia un Santuario di protezione e di conservazione della biodiversità.