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Dubbi e perplessità sul nucleare dopo Fukushima

In edicola > Articoli pubblicati > N°4-5_2011

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Non ha nulla di strategico, ma è funzionale agli interessi delle lobbies
Dubbi e perplessità sul nucleare dopo l’incidente di Fukushima

Giungerà il momento in cui si presenterà l’ineludibile necessità di ridiscutere i parametri fondativi della scienza economica del Novecento. Il mito della crescita illimitata, sul quale si fondano le moderne società industriali, è caduto da un pezzo

Di ERNESTO GIRLANDO

Due disastri ambientali in poco meno di un anno (la fuoruscita di petrolio dalla piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico e l’esplosione della centrale nucleare di Fukushima, in Giappone) imporrebbero (se il mondo non è ancora totalmente impazzito) quell’effetto di ripensamento culturale necessario a rivedere non solo le politiche energetiche e industriali, ma financo i parametri “ideali” su cui si fondano le moderne società cosiddette a capitalismo avanzato, specie quelle facenti parte di quell’indistinto magma che chiamiamo Occidente.

Quando si accusa la politica di non essere più in grado di andare oltre la gestione del presente e dell’esistente, di solito si dà la colpa alla fine delle ideologie. Ma è un errore. È la fine della politica stessa a essere la causa dell’impossibilità di fornire progetti e visioni ampie e di lungo termine. È il sopravvento della sovranità del Mercato, con la sua morale brutale (è buono tutto ciò che fa mi guadagnare, cattivo ciò che mi fa perdere) a escludere ogni forma di pensiero. Né questioni di carattere ambientale (nel senso più ampio possibile del termine), né riflessioni etiche, né visioni del futuro, né altri pensieri o retropensieri di qualsivoglia natura riescono a interferire con la rudimentale logica del Mercato. Ovunque gli interessi nazionali coincidono con quelli economici, ovunque ne sono giustapposti fino a combaciare perfettamente con gli interessi dei “pochi”, di chi riesce sempre e comunque a riempire la propria pancia. E pazienza se riempiendo la propria svuota o sventra quella altrui.

Grandi Compagnie condizionano la politica, sovvenzionano campagne elettorali, sottraggono al controllo degli Stati (e dei cittadini), di fatto, fette sempre più consistenti di sovranità. Sono attualmente 8 nel mondo le aziende che costruiscono le centrali nucleari e impongono - a loro esclusivo vantaggio - modelli sbagliati: tra queste la francese Areva, le americane General Electric e Westinghouse, le giapponesi Toshiba e Hitachi. Le altre sono operanti in Corea, Russia e Cina.

I reattori nucleari attivi nel pianeta sono 443 concentrati in 29 Paesi (148 in Europa distribuiti in 16 nazioni). A questi vanno aggiunti gli attuali 63 in fase di costruzione. Il 20 % dei 443 tuttora in funzione si trova in paesi a rischio sismico e 62 di quelli in costruzione sorgono vicino a faglie (rotture della crosta terrestre) conosciute. Tutti i reattori giapponesi sono ad altro rischio (alcuni classificati a rischio “molto alto” dalla Worl Nuclear Association, l’associazione che riunisce i costruttori). Allo stesso livello di rischio massimo ci sono altri sei reattori a Taiwan, quattro negli Usa. In Europa, solo alcuni reattori sperimentali nel sud della Francia sorgono in zone considerate a rischio.

I 443 reattori attualmente in funzione (dato risalente al gennaio 2011) sviluppano una potenza di 377,750 Giga watt e producono solo il 14% del consumo mondiale di energia. Il costo medio attuale di una centrale nucleare (l’EPR da 1600 MW, reattore di III generazione fornito dalla Areva) è di 4,5 miliardi di euro. Elevati sono i costi di manutenzione di una centrale, elevatissimi i costi di smaltimento delle scorie e di decommisioning (lo smantellamento e la messa in sicurezza del sito). Secondo uno studio dell’Università di Chicago (confermato dall’IEA, l’Agenzia Internazionale dell’Energia) i costi per ogni MW di energia prodotta dal nucleare vanno dai 47 ai 71 dollari, contro i 33 - 41 del carbone e 35 - 45 del turbogas. Non esistono attualmente nel mondo soggetti privati che investono sull’energia nucleare e i costi di essa sono tutto a carico delle collettività.

Da questi dati emerge dunque una certezza: il nucleare non ha nulla di strategico, ma è funzionale agli interessi delle lobbies politico-industriali-militari specializzate in profitti dalle modalità più che discutibili: grandi business che muovono montagne di soldi, vasti giri d’affari, appalti e commesse. Il tutto a carico dei cittadini: è l’aria che i grandi gruppi, quelli dell’energia nella fattispecie, respirano molto volentieri.

Il caso italiano ne è più che un esempio. Sancito dal referendum dell’87 l’abbandono del ricorso al nucleare come fonte di approvvigionamento energetico, 22 anni dopo il governo Berlusconi decide di riprendere la strada dell’atomo. Lo fa attraverso un accordo con la Francia di Sarkozy. Ma, in verità, a leggerne i termini, più che un vero accordo si configurerebbe una dichiarazione di intenti. Tra Enel e Edf sono stati firmati, nel febbraio del 2009, soltanto due memorandum of understanding, ossia due protocolli di intesa. Il primo, in particolare, “pone le premesse per un programma di sviluppo congiunto dell’energia nucleare in Italia da parte delle due aziende” (pone le premesse ma non c’è nessun piano del genere), parla di studi di fattibilità, “prevede” la costituzione di “una società ah hoc per la costruzione, proprietà e messa in esercizio di ciascuna unità di generazione nucleare EPR”. Ciò dovrebbe avvenire però in un secondo tempo, ossia quando saranno prese “le necessarie decisioni di investimento”, quando qualcuno avrà trovato i soldi. Naturalmente ciò non vuol dire che Italia e Francia non hanno manifestato interesse a collaborare sull’energia nucleare. Con il proprio nucleare in fase di declino (note a tutti le vicende economicamente disastrose del Superphenix - tra i 15 e i 20 miliardi di euro di perdite), i transalpini hanno bisogno di partners per rilanciare nuove centrali. Ma l’accordo, ad oggi, è più fumo che altro.

Di certo c’è che l’Italia ha speso dal 1999 a oggi un bel po’ di soldi per il decommissining degli impianti nucleari spenti dopo il 1987. La SOGIN (Società di Gestione degli Impianti Nucleari) è costata fino adesso 40 milioni di euro (dei quali 10,5 sono stati spesi solo per il mantenimento della società), mentre del suo operato e dei risultati ottenuti non si sa nulla, in quanto la maggior parte degli atti sono secretati per decisione del gen. Carlo Jean, nominato nel 2003 commissario della società. Il tutto ovviamente finanziato attraverso gli oneri generali del sistema elettrico italiano presente nelle bollette elettriche.

Per il resto, dopo l’incidente di Fukushima, dubbi e incertezze assillano le menti di ministri e capi di governo. Perfino il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo ha dovuto fare una stridente marcia indietro, dopo essere stata mandata allo sbaraglio qualche giorno prima dal governo, a sostenere i piani nucleari italiani, mentre il mondo teneva il fiato sospeso e i principali Paesi nuclearisti (Germania e Stati Uniti in testa) cautamente (e concretamente) si interrogavano sul futuro dell’energia nucleare.
Naturalmente, nessuno si illude. Finita l’onda emotiva seguita all’incidente della centrale giapponese, i grandi gruppi torneranno alla carica. Così fu dopo l’incidente di Three Mile Island, così fu dopo Chernobyl.

Certo, prima o poi (più prima che poi) giungerà il momento in cui si presenterà l’ineludibile necessità di ridiscutere i parametri fondativi della scienza economica del Novecento. Il mito della crescita illimitata, sul quale si fondano le moderne società industriali, è caduto da un pezzo. In un mondo finito, con risorse finite e capacità di carico limitate, una crescita infinita è impossibile. Né è pensabile che si possano mantenere a lungo le attuali disparità tra il 20% dell’umanità che consuma l’80% delle risorse e l’80% della popolazione che deve accontentarsi del 20% delle risorse. Smontare il mito della crescita illimitata, definire nuovi parametri per le attività economiche e produttive, elaborare altri saperi e altro saper fare, sperimentare modi diversi di rapportarsi con il mondo. Che sua maestà il Mercato lo voglia o meno.

E.G.


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