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In edicola > Articoli pubblicati > N°2-3_2011
L'invito a “boicottare” il ciliegino siciliano,supposte implicazioni “mafiose”
nella commercializzazione del prodotto, ha scatenato un frastuono di polemiche
L'agricoltura, i pomodori
e le infiltrazioni criminali
Gli sforzi polemici di larga parte della classe politica siciliana che si sono rivolti contro l'insignificante invito a “boicottare per un giorno il ciliegino”, ci sembra il solito segnale di ammattimento generale che da tempo distorce
i normali procedimenti logici
di Ernesto Girlando
Ultimamente stiamo diventando tutti un po' troppo intelligenti, evidentemente.
Peccato: c'è chi come noi è rimasto a Cesare Zavattini: “Non so voi, ma io sogno un Paese dove buongiorno vuol dire solo buongiorno”. E dunque vorremmo vivere in un Paese nel quale le parole “mafia” e “criminalità” significhino proprio “mafia” e “criminalità”. Usare le parole (specie alcune) come si usano i petardi o le bolle di sapone, per fare rumore o per giocare, e non curarsi dell'anima che ogni parola possiede - il suo significato - vuol dire rassegnarsi a vivere in un paese dove niente significa più niente, nel paese dove buongiorno non significa soltanto buongiorno.
Se la parola perde ogni legame con il proprio etimo e la propria storia, con il proprio peso e la propria natura, rischia di diventare solo un suono, un mantra, un salmodiare a caso che talvolta rischia, consapevolmente o meno, di avere un effetto pari a quello di una bomba.
L'invito a “boicottare” il ciliegino siciliano, rivolto agli spettatori della trasmissione “Bontà loro” di Maurizio Costanzo e a quelli di “Agorà” di Andrea Vianello, da un tale che di nome fa Alessandro Di Pietro, per supposte implicazioni dovute a ipotetiche infiltrazioni “mafiose” nella commercializzazione del prodotto, ha scatenato un frastuono di polemiche che, come al solito, e come succede da anni, rischia di far passare in second'ordine la sola cosa che invece dovrebbe contare: cercare di distinguere ciò che è rilevante da ciò che non lo è.
Il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, ha parlato di infiltrazioni mafiose nel settore alimentare, citando il caso del ciliegino siciliano. Ora, qualcosa di vero ci deve pur essere se a parlarne è il procuratore antimafia (salvo che invece di parlarne sarebbe meglio occuparsene concretamente). E del resto, che l'argomento sia oggetto di indagini, condotte dal comando della Guardia di Finanza di Ragusa, con il coordinamento del procuratore Carmelo Petralia, è un fatto noto. Che però gli sforzi polemici di larga parte della classe politica siciliana si siano rivolti contro l'insignificante invito a “boicottare per un giorno il ciliegino”, ci sembra il solito segnale di ammattimento generale che da tempo distorce i normali procedimenti logici. Ma (si sa) larga parte dei politici italiani nutre ambizioni nel mondo dello spettacolo, correndo per altro il rischio di fare la stessa fine delle tante ragazzine sculettanti che vagheggiano sogni di gloria.
In un Paese in cui in genere la notizia di apertura dei giornali è la frase del Presidente del Consiglio che annuncia: “Siamo sull'orlo della guerra civile” e l'immediata risposta del Csm è che il Presidente del Consiglio è “un pericolo per la democrazia”, mentre in strada non si vedono carri armati e autoblindo pronti ai rastrellamenti, né si avvertono colpi di cannone sullo sfondo, è normale che accadano queste cose.
Tuttavia, il problema c'è ma è un altro: la percezione che la filiera agroalimentare è dominata da un contesto di illegalità. Una percezione da anni diffusa tra gli stessi operatori del settore. C'è una perversa alleanza tra il nuovo sistema di commercializzazione, legato alla Grande Distribuzione Organizzata, e le vecchie pratiche speculative tenacemente resistenti nei luoghi di produzione. Il tutto a danno esclusivo di chi produce: cinquemila micro aziende che subiscono la cappa di illegalità, le angherie, le soperchierie di un blocco speculativo che va dalla GDO ai grandi Mercati del Nord Italia. Apparentemente in concorrenza tra di loro, ma alleati a spese dei produttori siciliani.
Imposizione dei prezzi, fenomeni di dumping, taroccamento dei prodotti di nazionalità estera (specie tunisini) che entrano nei magazzini locali ed escono con il marchio “Vittoria” o “Sicilia” ed altre oscenità gravano sull'orticoltura siciliana. Scaricare le colpe sui produttori (boicottare il prodotto) vuol dire rovesciare i termini del discorso.
Nessuno però parla delle sconcezze del mercato di Vittoria, lo snodo commerciale di gran parte della produzioni ortofrutticole dell'intera fascia trasformata siciliana. Due milioni e mezzo di quintali di prodotto per un giro d'affari che si aggira sui duecento milioni l'anno. Che si accaparrano i cosiddetti “posteggiatori”: 74 i concessionari di licenza all'interno della struttura mercantile ragusana, ma di cui solo una decina si spartisce la grande fetta. Commissionari e commercianti al tempo stesso: l'antico male della doppia attività. Come commissionari dovrebbero spuntare il miglior prezzo a vantaggio dei produttori.
Nei fatti, come commercianti, comprano loro stessi la merce (e dunque non sono, come dovrebbero, semplici intermediari a percentuale): il loro interesse è determinare il prezzo più basso possibile. Mafiosi? Pratiche mafiose? O, molto più semplicemente, pratiche fraudolente?
Ma il fenomeno va avanti indisturbato da decenni, nonostante le tante denunce dei produttori e le battaglie dell'ex sindaco e deputato regionale vittoriese, Francesco Aiello.
Dunque, si compra al prezzo più basso (il ciliegino a 20, massimo 30 centesimi per vederlo sui banchi al dettaglio, specie al nord, a 4 e financo a 5 euro) per lucrare sulla differenza pagata dagli uffici acquisti della GDO.
Ma la filiera dell'illegalità non si esaurisce con la doppia attività dei concessionari e la loro connivenza con la GDO: ci sono le cosiddette attività connesse. I magazzini di confezionamento della merce (un centinaio nella zona attorno al mercato) spesso riconducibili a commissionari, a parenti, a persone con pregresse condanne penali (anche per mafia) sulle spalle. Attività dove lavorano migliaia di persone, specialmente donne, in condizioni di semi-schiavitù.
I trasporti: l'altro grande affare. Strane logiche regolano questa attività: più si viaggia, più si lucra. La merce parte da Vittoria per i mercati del nord, per poi fare ritorno al mercato di origine, rispedita giù da qualche altra azienda di trasporti.
Diverse le ditte che si occupano di questi trasporti, in genere una per ogni regione di destinazione. I tir sono di proprietà dei camionisti, dei piccoli padroncini, ma viaggiano tutti con la stessa insegna, grande e vistosa. “La Paganese” è una di queste, finita di recente nel mirino della Procura antimafia. In corso di accertamento i rapporti tra queste ditte e i proprietari dei Tir.
Una forma sotterranea di estorsione? Infiltrazioni mafiose? Può darsi, ma al momento non c'è dato sapere. I commissionari giurano esserne completamente estranei e di avere con gli autotrasportatori esclusivi rapporti di lavoro. Ma un dato è certo: l'illegalità è diffusa. Tutta a danno dei produttori.
Una trasmissione televisiva (e il conseguente baccano fuori bersaglio) possono ribaltare la realtà. È la prerogativa della Società dello Spettacolo di Guy Debord, una telecamera accesa di qua e una spenta di là, o viceversa; una dichiarazione in più o una in meno, e il mondo si legge all'incontrario. Forse il povero George Orwell si sbagliava: il Grande Fratello non è un genio del male, forse è solo il capo dei falsari.
E.G.
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