La Voce dell'Isola


Vai ai contenuti

Menu principale:


Politica - Fine del bipolarismo mai nato

In edicola > Articoli pubblicati > N°1_2011

Share |
Antonio Di Pietro
Pier Luigi Bersani
Pier Ferdinando Casini
Umberto Bossi

La profonda crisi che rischia di trascinare nel baratro l'intero Paese
L'unica novità della politica è la fine del bipolarismo
mai nato

Gianfranco Fini

L'attuale ceto politico è ormai così assente e ottenebrato al punto da non rendersi più conto che di ora in ora la sua reputazione si fa sempre più debole e precaria

Il vero fallimento, che paralizza il sistema politico e congela gli equilibri nel Paese, è quello del Pd; un fallimento che blocca ogni possibilità di dinamica alternativa. Buona parte dell'elettorato italiano non ha strade credibili e percorribili. In Sicilia regna Lombardo

di Ernesto Girlando


Saltando decisamente le paginate di giornale dedicate quotidianamente ai cosiddetti casi della politica, che casi poi non sono ma appena l'ossessiva reiterazione (in peggio) di un politicantismo arcaico e consumato, rimane lo stordimento del cosiddetto ceto politico, ormai così assente e ottenebrato al punto da non rendersi più conto che di ora in ora la sua reputazione si fa sempre più debole e precaria. Il clima è irreale, del tutto somigliante all'atmosfera surreale del concerto finale dell'orchestra del Titanic che, nel salone di prima classe, continuava a suonare anche dopo la collisione nel tentativo di distrarre i passeggeri, ancorché il destino della nave fosse segnato. Solo che dalle orchestre dei Palazzi arrivano note sempre più stonate e dissonanti.

La fine di un bipolarismo mai nato è forse l'unica vera novità emergente dalla profonda crisi politica che rischia di trascinare nel baratro l'intero Paese.

La storia italiana degli ultimi quindici anni è stata segnata da un'infinita serie di tentativi (falliti) di costruire forze maggioritarie o tendenzialmente tali. Il crollo ultimo dei due cardini del bipolarismo nazionale, Popolo della Libertà e Partito Democratico, impone a tutti di fare i conti con il fallimento.

L'uscita di Fini, da un lato, così come quella di Rutelli e di Veltroni (anche se arrestatasi questa in ritirata tattica) dall'altro, sono rivelatori di contrasti strategici di fondo che nessun contenitore improvvisato e fondato solo sul tentativo di sommare numeri, potrà ancora confondere a lungo. Né l'idea del terzo polo sembrerebbe adeguata alla qualità dell'iniziativa politica che il momento storico impone: non si tratta di mettere insieme pezzi e cocci dei vecchi schieramenti, raccogliere fuoriusciti e rubarsi rappresentanze istituzionali.

Né si tratta di allargare la maggioranza parlamentare con qualche altro acquisto: servirebbe solo a vivacchiare ancora qualche mese, congelando gli attuali equilibri politici che da anni non consentono di realizzare le necessarie riforme e frenano la nostra competitività a ogni livello, in ogni settore. Se Berlusconi riuscirà a sedurre Casini con l'arma di una buona iniziativa politica (ma è difficile che il leader dell'Udc rinunci a giocare la carta che ha in mano: l'opposizione di centro allo stesso Berlusconi nel tentativo di costruirne l'alternativa), bene, altrimenti l'unica soluzione è il ricorso alle urne.

Altre scelte sembrano impraticabili anche se il Pd “dalemiano” fa le prove del suicidio proponendo un governo tecnico per la legge elettorale e la gestione della crisi economica. Cosa che regalerebbe al Cavaliere l'arma micidiale del golpe subito da utilizzare in campagna elettorale. Per il resto altre possibilità di continuare la legislatura non se ne vedono. Né, al momento, sembra pensabile che l'accoppiata Tremonti-Bossi possa compiere le sue idi di marzo, pensionare Berlusconi e ottenere da Napolitano l'incarico di formare un governo che possa reimbarcare Fini e provarci anche con Casini. Ma qui siamo ai confini della fantapolitica.

Quel che è certo e innegabile, piuttosto, è che il tramonto del Cavaliere è comunque iniziato; il rischio è che egli riesca a trasformarlo in un “lungo tramonto”. Molto dipenderà dalla Lega, dall'interno della quale qualche sofferenza sulla “fedeltà” a Berlusconi inizia a trasparire. Ma Bossi ha un obiettivo da raggiungere: andare alle elezioni con l'attuale legge elettorale e tanto dovrebbe bastare perché egli continui a sostenere il Cavaliere. In fin dei conti la Lega può infischiarsene di chiunque: possiede un'agilità tattica e una base fortemente fidelizzata che le permettono di allearsi con chi vuole senza perdere un solo voto.

Ma il vero fallimento, che paralizza il sistema politico e congela gli equilibri nel Paese, è quello del Pd; un fallimento che blocca ogni possibilità di dinamica alternativa. Buona parte dell'elettorato italiano non ha strade credibili e percorribili. La fiducia di cui continua a godere Berlusconi viene dalla mancanza di un vero partito democratico e liberale che possa competere con il centrodestra. E' paradossale che mentre il Pdl crolla, vive scissioni e sconquassi senza precedenti, nemmeno lo 0,5 degli elettori si sposti verso il Pd. Che ha perso pure l'occasione (almeno per il momento) di agganciare l'area di centro. Un'impasse che sembra senza vie di uscite.

Altrettanto complessa la vicenda siciliana. La legislatura isolana sembra appesa allo stesso filo di quella romana. E' il paradosso di sempre che ritorna: la Sicilia determina gli equilibri nazionali ma le sue sorti dipendono da Roma. E anche quando sorgono “partiti” nuovi, per quanto pretendano di muoversi nell'ambito del consunto copione del filone autonomista, nascono con la tara dell'innata predisposizione ad avere un padrino politico “romano”. L'ultima creatura di Gianfranco Miccichè, figlia del bizantinismo della casta siciliana, ne è il più recente degli esempi.

Ma la mobilità e la duttilità di Raffaele Lombardo che cambia governi e alleanze a ritmi forsennati confondono anche i più solerti osservatori della politica isolana. Un demone che ammalia, un furore di perenne rimescolamento, un senso di moto perpetuo, che hanno fatto sì che perfino la santa alleanza con l'amico Miccichè, quella da cui dovevano scaturire le grandi riforme, il nuovo mondo, ma anche il nuovo partito, sia andata in frantumi. Prima i nemici di sempre: i cuffariani, gli Alfano e gli Schifani, i Castiglione e i Firrarello, ma dopo? Chi ha mandato all'aria la santa alleanza? Resta un punto oscuro. Ragioni politiche o mero calcolo di potere?

In mancanza di una risposta da parte del governatore, un elemento incontrovertibile risalta agli occhi: più governi si sono formati, più alleanze sono andate in frantumi, più Lombardo ha acquisito forza e rappresentanza, ha occupato posti ed elargito nomine. Tutto autorizza a pensare a un calcolo spiccio: se nel primo governo il dinamico governatore era costretto a dividere il potere in quattro con gli alleati, fatto fuori Cuffaro ha potuto dividere in tre. Poi eliminati i lealisti si è trovato a dividere in due con l'amico Gianfranco.

Ma su queste cose, si sa, non si può essere mai soddisfatti e scoperto, con le nomine alle soprintendenze, che si poteva dividere per uno (l'operazione ideale per Lombardo), ecco che ricominciava a parlare di riforme tradite, di partiti che gli impedivano di attuarle, e a inventarsi nuove trovate, tecnici e nuove obbedienze.sapientemente affondato la corazzata del Pdl che in Sicilia era solita arraffare quasi un voto su due, con l'alleato Fini che cercava di fare lo stesso lavoro a Roma. Ha provato a fare la stessa cosa con il Pd, ma la tradizionale disciplina di partito degli ex diessini e l'innata vocazione al compromesso degli ex democristiani hanno prevalso, consegnandogli nelle mani un partito apparentemente unito che rischia di venire dimezzato alle prossime elezioni.

Il segretario Lupo ha finalmente capito che il suo partito è in caduta libera e adesso cerca di smarcarsi. L'epilogo sembrerebbe vicino. Ma Lombardo non è uomo da arrendersi così facilmente. Si smarcherà dai nuovi alleati del terzo polo? Tornerà con Berlusconi, rioffrendogli linfa parlamentare per acquisire un posto accanto al manovratore? Rafforzerà la sua posizione in seno al terzo polo? O tutto si risolverà con l'ennesimo rimpasto e l'entrata del Pd, insieme con i finiani, nel governo della Regione? Il Pd ha una fronda interna (Enzo Bianco e Giovanni Barbagallo), una esterna (da Claudio Fava a Rita Borsellino), degli scontenti (Cardinale, Genovese e Papania), tutti in fibrillazione a causa del governatore.

Lupo ha paura della perdita di consensi. Non ha molte strade da percorrere: continuare sulla via intrapresa o far crollare tutto rischiando di rimanere lui stesso e il suo partito sotto le macerie. Lombardo no, per lui le vie sono sempre infinite.

Silvio Berlusconi
Niki Vendola
Raffaele Lombardo
Massimo D'Alema

Torna ai contenuti | Torna al menu